John Boyne
Autore di Il bambino con il pigiama a righe
Sull'Autore
Acclaimed Irish novelist John Boyne was born in Dublin, Ireland on April 30, 1971. He studied English Literature at Trinity College, Dublin and Creative Writing at the University of East Anglia. He has written dozens of short stories and many novels, including the New York Times bestseller The Boy mostra altro in the Striped Pyjamas. An award-winning film adaptation of this work was released in 2008. In 2015 his title, A History of Lonelines made The New Zealand Best Seller List. (Bowker Author Biography) mostra meno
Serie
Opere di John Boyne
EL NIÑO CON EL PIJAMA A RAYAS 6 copie
The Boy in the Striped Pajamas 2 copie
EL NIÑO DE PIJAMAS A RAYAS 1 copia
EL NIÑO DE PIJAMA A RAYAS 1 copia
Por Lugares Devastados 1 copia
El ni?o con el pijama de rayas 1 copia
الصبي ذو البيجاما المقلمة 1 copia
2009 1 copia
Fique onde esta e então corra 1 copia
John Boyne 3 Books Collection Set (The Heart's Invisible Furies,A History of Loneliness,A Ladder to the Sky) (2019) 1 copia
Mourning Light 1 copia
EL NIÑO DEL PIJAMA A RAYAS 1 copia
Opere correlate
The Great War: Stories Inspired by Items from the First World War (2015) — Collaboratore — 107 copie
Etichette
Informazioni generali
- Nome canonico
- Boyne, John
- Nome legale
- Boyne, John
- Data di nascita
- 1971-04-30
- Sesso
- male
- Nazionalità
- Ierland
- Nazione (per mappa)
- Ierland
- Luogo di nascita
- Dublin, Ierland
- Luogo di residenza
- Dublin, Ierland
- Istruzione
- Trinity College, Dublin
Terenure College
University of East Anglia - Attività lavorative
- Schrijver
Journalist - Agente
- Simon Trewin (PFD)
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- 3.9
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- 730
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Quella che l’autore chiama una “favola” è il peggior incubo in cui ci possa immaginare. Anzi, è la peggior espressione che l’umanità sia in grado di produrre di se stessa: l’Olocausto. In quanto favola, secondo i canoni classici mostra certamente una morale. Mostra vizi e virtù degli uomini, tanti vizi e pochissime rarefatte virtù, fatta eccezione per quelle che albergano nel cuore e nella mente del piccolo Bruno, il protagonista della nostra storia, nove anni ancora da compiere. Non ci sono però animali parlanti che agiscono e pensano come uomini, a meno di non voler considerare quegli uomini votati all’eliminazione sistematica di altri esseri umani chiusi in un recinto come animali, loro stessi “animali” della peggior specie. Come in ogni favola c’è un’introduzione, uno sviluppo, un epilogo drammaticamente lacerante e una morale. Questa favola però non nasce nel mondo antico con la complicità di Esopo o di Fedro, nasce dalla follia di un uomo, dal delirio di tutti coloro (tanti, troppi) che lo hanno seguito e dalla altrettanto colpevole distrazione di tutti quelli che, pur sapendo e vedendo, si sono girati dall’altra parte. E ci sono rimasti a lungo girati, se pensiamo che solamente nel campo di concentramento di Auschwitz, durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il 1940 ed il 1944, furono sterminati più di un milione di prigionieri, in gran parte ebrei
Eccolo il contesto in cui si sviluppa la storia di John Boyne che su una cosa ha effettivamente fatto le cose bene. Distaccandosi da altre forme narrative che ci hanno raccontato dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, l’autore ha strutturato un impianto narrativo dimensionato al suo protagonista per cui tutto l’orrore, nella sfera di una non piena consapevolezza degli accadimenti vissuti da parte dello stesso, paiono quasi strani incomprensibili eventi di una favola, anche se tragica. Tanto che leggendolo ci pare di parlare in falsetto come i protagonisti, sentire nella nostra testa, nei dialoghi, nei pensieri soffusi, le vocine dei bambini. Quelle di Bruno, della sorella di qualche anno più grande, del suo nuovo amico Shmuel, ebreo, smunto, scheletrico, che sta oltre il recinto di filo spinato. Ci fa quasi paura la figura di quel padre autoritario, in divisa, abituato a comandare che quando parla ci vien quasi d’istinto di farci scudo con una poltrona o nasconderci dietro ad una tenda. E in tutto ciò l’autore ci da una mano anche quando i nomi che Bruno pronuncia e che in tutto il libro si ripetono, sono storpiati come li storpierebbe un bambino di otto anni. E così il detestabile Führer diventa il Furio, il campo polacco di Auschwitz è Auscit ed il saluto nazista un diverso modo di augurarsi buona giornata.
Bruno vive in una bella casa nella vivace Berlino, ma la sua innocente spensieratezza va in frantumi perché un nuovo importante e prestigioso incarico del padre lo costringe, insieme a tutta la famiglia, a lasciare casa, scuola, amici per recarsi in un luogo triste, tetro e senza bambini con cui giocare, ma solo spettrali baracche in lontananza, un incomprensibile villaggio di pallidi spettri che preferiscono ad ogni attività starsene in pigiama tutto il giorno. E le domande affiorano, magari un poco smarrite nelle priorità quotidiane di ogni bambino che pensa ad altro, ma affiorano. E Bruno si domanda come mai tutte quelle persone che aveva visto alla stazione si erano pigiate su un treno senza porte e ristorante, quando il treno che aveva preso lui era quasi vuoto e così comodo. Dove stava la differenza tra gli uni e gli altri? Si chiede chi decide chi deve vestire l’uniforme e chi il pigiama. Quello stesso pigiama a righe che indossa il suo nuovo amico, il suo nuovo migliore amico.
"Ciò che vide gli fece sgranare gli occhi e spalancare la bocca in una grossa O, ma le braccia rimasero rigide lungo i fianchi perché c’era qualcosa là fuori che gli diede un gran senso di gelo e di incertezza”.
In quel mondo surreale, scollegato quasi dalla realtà per come dovrebbe essere concepita dall’umanità tutta, si crea un legame tra Bruno e Shmuel che sono nati lo stesso giorno, quasi gemelli dirà Bruno. Differenti, ma anche simili. Si incontrano quasi quotidianamente, segretamente, divisi da un reticolato, in fondo, dove l’orizzonte del campo di sterminio si perde in un paesaggio sfumato. Non possono giocare assieme e quindi si limitano a parlare.
«Le nostre mani sono così diverse. Guarda!» I due bambini guardarono nello stesso momento e la differenza era evidente. Anche se Bruno era basso per la sua età, e certo non era grasso, la sua mano era sana e piena di vita. Le vene non si vedevano attraverso la pelle, le dita non erano poco più di bastoncini secchi. La mano di Shmuel raccontava una storia molto diversa. «Come ha fatto a diventare così?» chiese Bruno. «Non lo so» disse Shmuel. «Una volta assomigliava di più alla tua, ma non mi sono accorto che cambiava. Tutti quelli che stanno dalla mia parte del recinto adesso sono così.»
Parlano e si confrontano su quello che sta loro accadendo, ma privi di quella totale consapevolezza di essere interpreti di una tragedia senza eguali. Galleggiano nell’orrore, anche se strada facendo quasi vi sprofondano: la reazione irritata della sorella all’idea abbozzata dal fratellino di essere uguali agli ebrei, la didattica della razza propugnata dal precettore incaricato dell’educazione di Bruno, così come la reazione fanatica e violenta del collaboratore del padre nei confronti di un servitore domestico ebreo.
Trascorso un anno dall'arrivo in Polonia la madre, forse per girarsi dall’altra parte, decide di riportare i figli a Berlino. Ma il piccolo Bruno non può non concedersi, per il suo ultimo incontro con l’amico Shmuel, un’ultima grande avventurosa esplorazione. Lo deve a quel bambino con il pigiama a righe. Perché gli amici, quelli veri, non si lasciano mai nel momento del bisogno. Arrivati a questo punto, non posso e nemmeno voglio proseguire oltre nel narrarvi la trama, poiché la mia intenzione non è quella di farne una sinossi, ancor più perché nemmeno la quarta di copertina di questa edizione vi si avventura.
La si legge speditamente fino alla fine quella che il suo autore chiama favola, forse perché nel nostro mondo, quello percorso da guerre e pregiudizi di ogni sorta, da ingiustizie sociali e intolleranza per la diversità, la visione di questi due bambini ci mostra come veramente potrebbe essere bello vivere in un pianeta in cui ognuno di noi accetti l’altro, senza pregiudizi. Anche il senso di sgomento ne è amplificato, in un finale che pare un giudizio divino anch’esso iniquo, intorno a due anime pure sedute una di fronte all’altra con un “muro” eretto a confine invalicabile. Uno dei tanti muri che abbiamo preso gusto a edificare.
Pubblicato su: https://www.territoridicarta.com/blog/il-bambino-con-il-pigiama-a-righe-di-john-...
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