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Jack Kerouac (1922–1969)

Autore di Sulla strada

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Sull'Autore

Jack Kerouac was born in Lowell, Massachusetts, in 1922. His first novel, The Town and the City, was published in 1950. He considered all of his "true story novels," including On the Road, to be chapters of "one vast book," his autobiographical Legend of Duluoz. He died in St. Petersburg, Florida, mostra altro in 1969 at the age of forty-seven. (Publisher Provided) mostra meno
Fonte dell'immagine: Tom Palumbo

Serie

Opere di Jack Kerouac

Sulla strada (1957) 27,820 copie
I vagabondi del Dharma (1958) 7,331 copie
Big Sur (1963) 2,755 copie
The Subterraneans (1958) 2,051 copie
Desolation Angels (1965) 2,039 copie
Lonesome Traveler (1960) 1,181 copie
Visions of Cody (1972) 1,086 copie
Il dottor Sax (1959) 841 copie
The Town and the City (1950) 829 copie
Maggie Cassidy (1959) 826 copie
Tristessa (1960) 799 copie
Mexico City Blues (1959) — Autore — 722 copie
Visioni di Gerard (1963) 581 copie
Vanità di Duluoz (1968) 517 copie
Libro dei sogni (1961) — Autore — 460 copie
Poesie Beat (1989) 457 copie
Pomes All Sizes (1992) 428 copie
Satori in Paris / Pic (1986) 370 copie
Some of the Dharma (1954) 365 copie
Satori a Parigi: romanzo (1966) 355 copie
Book of Blues (1995) 328 copie
Il libro degli haiku (2003) 300 copie
Orfeo emerso (1703) 270 copie
The Subterraneans / Pic (1959) 245 copie
Bella bionda e altre storie (1993) 192 copie
Heaven and Other Poems (1977) — Autore — 152 copie
Beat generation (1957) 139 copie
Old Angel Midnight (1973) 138 copie
Collected poems (2012) 120 copie
Trip Trap (1600) — Collaboratore — 71 copie
Pull My Daisy (1961) 37 copie
'Beat' Poets (1961) — Collaboratore — 24 copie
Romanzi (2001) 20 copie
La vie est d'hommage (2016) 12 copie
Neal e i tre Stooges (1993) 11 copie
Poèmes (1976) 6 copie
Blues and Haikus (2008) 5 copie
Rimbaud (1970) 5 copie
Underwood Memories (2006) 3 copie
Manhattan Sketches (1987) 3 copie
Mój brat ocean (2013) 3 copie
Pull My Daisy [1959 film] (1959) — Narratore — 3 copie
Two early stories (1973) 3 copie
Eenzame reiziger (2022) 3 copie
L'océan est mon frère (2022) 3 copie
Joual (1984) 3 copie
Correspondance: (1944-1969) (2014) — Autore — 2 copie
Listy (2012) 2 copie
Podzemníci & Tristessa (2006) 2 copie
Kerouac 2 copie
Sur le chemin (2023) 1 copia
Sur la route 1 copia
il dottor sax 1 copia
Il mare è mio fratello (2012) 1 copia
Satori in Parijs (2023) 1 copia
V doroge : roman ( ) (2000) 1 copia
NE UDHE 1 copia
Baseball 1 copia
Il libro degli schizzi (2018) 1 copia
Poesie 1 copia
Jack Kerouac (1970) 1 copia
Mexico City blues II (1993) 1 copia
4 Haikus 1 copia
Refrain 1 copia
Kniha haiku (2019) 1 copia

Opere correlate

The Portable Beat Reader (Viking Portable Library) (1992) — Collaboratore — 1,459 copie
The Americans (1958) — Introduzione — 942 copie
The Outlaw Bible of American Poetry (1999) — Collaboratore — 593 copie
City Lights Pocket Poets Anthology (1995) — Collaboratore — 352 copie
The New American Poetry 1945-1960 (1960) — Collaboratore — 317 copie
Americans in Paris: A Literary Anthology (2004) — Collaboratore — 297 copie
New York Stories (Everyman's Pocket Classics) (2011) — Collaboratore, alcune edizioni152 copie
The Norton Book of Travel (1987) — Collaboratore — 110 copie
Soul: An Archaeology--Readings from Socrates to Ray Charles (1994) — Collaboratore — 101 copie
The Cool School: Writing from America's Hip Underground (2013) — Collaboratore — 79 copie
The Oxford Book of Travel Stories (1996) — Collaboratore — 74 copie
200 Years of Great American Short Stories (1975) — Collaboratore — 68 copie
The Beats (1960) — Autore, alcune edizioni62 copie
New American Story (1962) — Collaboratore — 48 copie
On the Road (2018) — Original book — 30 copie
The Bedside Playboy (1963) — Collaboratore — 23 copie
The Beat Scene: Photographs by Burt Glinn (2018) — Autore — 18 copie
Big Table 1 (1959) — Collaboratore — 18 copie
Kerouac At Bat: Fantasy Sports and the King of the Beats. (2009) — Collaboratore — 17 copie
My Brother Larry : The Stooge in the Middle (1984) — Appendix — 17 copie
The Best American Short Stories 1956 (1956) — Collaboratore — 17 copie
Constructing Nature: Readings from the American Experience (1996) — Collaboratore — 17 copie
The Playboy Book of Short Stories (1995) — Collaboratore — 11 copie
A New Directions reader — Collaboratore — 11 copie
Gringos in Mexico: An Anthology (1988) — Collaboratore — 10 copie
The Paris Review 43 1968 Summer (1968) — Collaboratore — 9 copie
Speed: Stories of Survival from Behind the Wheel (2002) — Collaboratore — 6 copie
Triquarterly 19 (Fall 1970) For Edward Dahlberg (1970) — Collaboratore — 4 copie
Playboy Magazine | January 1989 | 35th Anniversary Issue (1989) — Collaboratore — 2 copie
Kerouac Quarterly, V. 2, No. 1 — Collaboratore — 1 copia
Beatitude 16 — Collaboratore — 1 copia

Etichette

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Informazioni generali

Utenti

Discussioni

Robert Bolano and Jack Kerouac in Books Compared (Luglio 2009)

Recensioni

Finalmente anch’io ho letto il libro iconico della beat generation: ci è voluta la quarantena per convincermi a dargli una possibilità perché in tutta onestà non mi sembrava un libro che facesse per me. In effetti, in parte è stato così, ma sono abbastanza sicura che avrei apprezzato di più Sulla strada se Kerouac avesse usato meglio il suo talento.

La mia impressione alla fine della lettura è stata quella di un romanzo squilibrato: ci sono un sacco di pagine su posti visti, gente conosciuta e azioni svolte che magari nelle intenzioni di Kerouac volevano rompere le logiche borghesi, ma che a me sono sembrate solo un elenco fine a se stesso di posti, gente e azioni. Immagino che nel 1957 quelle pagine restituissero un significato dissacrante semplicemente esistendo, ma oggi mi è sembrato molto meno incisivo.

Tuttavia, ci sono delle scintille di critica alla società ancora perfettamente valide e puntuali nella loro denuncia. Ci è voluta un po’ di tenacia per vederle in mezzo ai posti, alla gente e alle azioni buttate lì, ma hanno reso la mia esperienza di lettura tutto sommato positiva e mi hanno messo voglia di leggere altro di Kerouac (consigli?).
… (altro)
 
Segnalato
lasiepedimore | 384 altre recensioni | Jan 14, 2024 |
Quando riprendo tra le mani uno dei libri che vanno letti almeno una volta nella vita, provo sempre una certa inadeguatezza nel parlarne. Non fa eccezione questo “Sulla strada”, universalmente conosciuto con il titolo originale di “On the road” di Jack Kerouac. Non posso dire sia uno dei libri di quel periodo che mi è piaciuto di più, ma resta senza dubbio, in considerazione dell’epoca in cui è stato pubblicato, un’icona generazionale e della letteratura “beat”. Come mi disse qualche anno fa un appassionato relatore ad un convegno sulla “beat generation” questo “è un romanzo che ha catturato lo spirito ribelle e avventuroso dell'America degli anni '50 ed è diventato un'opera fondamentale nella storia della letteratura americana”. Lo è senza dubbio mi sento di dire, come è certo che questo romanzo uscito nel 1957, ma che snoda la sua narrazione errante in un lasso temporale compreso tra l’immediato secondo dopoguerra e il 1950, rappresenta uno dei testi più influenti e celebri della cultura d’oltreoceano del XX secolo, capace di influenzare anche il pensiero europeo.

Non a caso ne conservo in biblioteca un paio di copie. Un'edizione curata dalla San Paolo all’interno di una collana dedicata ai “Grandi della narrativa” edita nel 1998, che si arricchisce di una sezione iniziale dedicata alla vita dell’autore nato nel 1922 e alle sue opere, con una sintetica, ma efficace bibliografia di approfondimento. La seconda che è questa, nella tradizionale edizione degli Oscar Mondadori (1995) nella collana “Scrittori del Novecento”, impreziosita da una bellissima introduzione dedicata alla “beat generation” firmata da Fernanda Pivano. In entrambe le stampe la traduzione è affidata a Magda de Cristofaro.

A priori dico subito che, rivedendo anche i miei paranoici appunti di gioventù sui libri che leggevo (ero già un seguace del culto pagano dei libri, quegli stessi oggetti sovversivi che Ray Bradbury brucia nel 1953 nel suo celebre Fahrenheit 451), che le mie impressioni su “On the road” sono mutate più volte. Se nella foga idealista post adolescenziale lo avevo descritto e raccontato come l’essenza della fuga, dell’indipendenza, della scoperta, dell’esperienza, tanto poi da fare scelte che nella vita riflettono quell’idea e quelle sensazioni (ho scelto di viaggiare per anni in giro per il mondo rinunciando alle certezze di un lavoro sicuro), nella rilettura più matura ne ho ricavato sensazioni certamente più nostalgiche, una visione più distaccata di certi eventi fuori dalle pulsioni dal contesto storico in cui si svolgono. Dunque anche una minore speditezza nella lettura, che a tratti, lo confesso, mi ha quasi disorientato, benché la mia esperienza su latitudini e longitudini mi corra sempre in aiuto. Inseguire Sal Paradiso ed il suo circo di amicizie un po’ folli non è una passeggiata in piano, ma un po’ di cinetosi si può sopportare.

Ne desumo che ciò sia l’effetto di quella che Kerouac stesso ebbe a definire come una “prosa spontanea” e che quella incredibile spontaneità che l’autore trasferisce alla sua scrittura mi è apparsa come l’immagine in velocità delle righe al centro della strada che si percorre. Insomma, si deve metabolizzare la velocità e al contempo il senso dell’istantanea. Si deve cogliere l'istante perché, in quanto tale, è irripetibile, non più rielaborabile all’interno di un testo scritto per catturare il flusso di coscienza e l'energia del movimento, essenza stessa del viaggio che spinge gli interpreti a girovagare con, ma anche senza, una meta precisa. Una necessità vitale per una gioventù ribelle che cerca di sovvertire l’ordine sociale e culturale in cui si trova a vivere e al quale rifiuta di conformarsi.

La Hudson dei protagonisti, che corre, scivola via, quasi senza una rotta precisa, sulle strade d’America, incarna lo spirito d’avventura, la voglia di improvvisazione, di estemporaneità del periodo beat. «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero» diceva Orazio, “mentre parliamo il tempo sta fuggendo, come se ci invidiasse. Cogli l'attimo (afferra il giorno) e spera il meno possibile nel domani”. Il romanzo di Kerouac è un “carpe diem” che ha caratterizzato un’epoca in cui, le ferite ancora aperte di chi tornava dal fronte della Seconda Guerra Mondiale si mescolavano ad un’insofferenza generazionale che contestava i padri, ma anche il sistema del buon vivere americano, delle politiche del potere guerrafondaio e cercava una nuova filosofia di vita. Un ricerca che, negli anni che seguiranno, influenzerà fortemente la gioventù americana, i movimenti pacifisti, le arti, la narrazione della vita stessa.

Per chi non ne abbia mai sentito parlare, dico subito che il romanzo è diviso in cinque parti. Kerouac racconta di una incredibile serie di viaggi in autostop e autobus, in gran parte improvvisati, fatti dal veterano Sal Paradiso (oggi diremmo l’avatar di Kerouac stesso) e dai suoi amici attraverso gli Stati Uniti. Kerouac lo scrisse in poco meno di un mese, nella primavera del 1951 nella sua dimora di New York, rielaborando i suoi diari di viaggio fatti con gli amici tra il 1947 e il 1950. Possiamo quindi chiaramente parlare di un romanzo autobiografico nel quale non è nemmeno molto difficile identificare protagonisti e attori: se Sal Paradise, aspirante scrittore in cerca di ispirazione, è l’alter ego di Kerouac, il controverso amico Dean Moriarty, carismatico, istintivo, che nell’avventura trova il senso puro della libertà, certamente si ispira a Neal Cassady. A completare il cast troviamo poi Carlo Marx (Allen Ginsberg) e Old Bull Lee (William S. Burroughs).

In un’America in grande fermento, dove lo scontro generazionale va salendo, Sal, nell’inverno del 1947, conosce Dean Moriarty da poco uscito di prigione e novello sposo, con un concetto assolutamente beat del matrimonio libero, poligamo e “sperimentale”. Insieme a loro bazzicano tra locali e comuni improvvisate un gruppo di giovani pensatori tra cui, il nome è già un programma, Carlo Marx il poeta. La filosofia di vita di Moriarty è contagiante. La sua visione libertaria della società, talvolta fortemente egocentrica, perennemente alla ricerca di esperienze al limite, con ampio abuso di alcol e droghe, influenza il gruppo, ma soprattutto Sal, alimentando nel giovane protagonista una sorta di idolatria nei suoi confronti, nonché la brama di evasione da confini geografici e barriere ideologiche, dalle convenzioni, dalla necessità di sperimentare e allargare i propri orizzonti di bravo ragazzo americano. E il viaggio è la via di fuga, la dimensione errabonda e dell’avventura che lo porterà a percorrere la mitica Route 66, a scivolare da una costa all’altra degli States, a San Francisco e Los Angeles, dove conosce una ragazza messicana di cui si innamora, nelle grandi distese del Midwest, tra i Grandi Laghi, nelle paludi del profondo sud oggi tanto care alla scrittura di Lansdale. Colonna sonora del viaggio per antonomasia è il jazz primigenio, il be bop alla Miles Davis e la voce dai riflessi blues di Billie Holiday.

“In principio il nostro viaggio fu piovigginoso e misterioso. Potevo capire che tutto stava per diventare una gran saga nella nebbia. “Urrà” urlava Dean. “Ecco che andiamo!” E si rannicchiava sul volante e lanciava la macchina come un bolide; era tornato nel suo elemento, ognuno di noi poteva vederlo. Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare” (“On the road” di Jack Kerouac).

Non è la meta che importa, è il viaggio. Non è un viaggio, sono tanti viaggi. Che messi insieme rappresentano nella narrazione di Kerouac una rivoluzione culturale capace di catturare l'essenza e l'energia della controcultura beatnik degli anni '50 e influenzare generazioni a venire di artisti, scrittori e musicisti. Nel libro però, quasi tutto dovesse avere una fine per ritrovare una rinascita, Sal, complice una malattia, inizia a distaccarsi da Dean, ne comprende l’egoismo dell’abbandono e umanizza il mito, non lo colpevolizza perché in lui matura la consapevolezza che è il momento di scegliere cosa fare della propria vita, lasciando il compagno di tante avventure alla esistenza errabonda e sbandata che egli si è scelto

Credo di aver già detto molto su un libro su cui è stato scritto davvero tutto e mi sarebbe oltremodo difficile, nello spazio che mi sono accordato, elaborare un trattato sulla cultura e sulla generazione beat. Per questo rimando all’ottima presentazione di Fernanda Pivano nell'edizione Oscar Mondadori che fa un racconto e un'analisi accurata del fenomeno. Chiudo con un pettegolezzo, una piccola faziosità sollevata da alcuni, tra questi il critico
Ronald K.L. Collins che, dalle pagine del Washington Post, insinua il dubbio che forse, senza quella fortuita, brillante, convincente recensione a firma di Gilbert Millstein sul New York Times (era il settembre del 1957), “On the road” sarebbe stato un libro qualunque. Millstein, che influenzò certamente altri recensori dopo di lui, ne parlò come di “un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte” e aggiunse definendo il libro come “l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”.

Va da sé che un libro cult generazionale come “Sulla strada” ha da sempre raccolto intorno a sé grandi estimatori che lo hanno esaltato per aver offerto una onesta rappresentazione della gioventù dell'epoca e dei propri ideali, così come di detrattori che lo hanno aspramente criticato per aver enfatizzato uno stile di vita anarchico, senza regole e persino autodistruttivo. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto senza quella fatidica recensione, quello che però possiamo affermare con certezza è che “Sulla strada/On the Road" ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura e la cultura americana, influenzando scrittori e autori come Bob Dylan, Allen Ginsberg e Hunter S. Thompson. Ha anche ispirato molte persone a intraprendere viaggi simili in cerca di avventura e del significato della vita.
… (altro)
 
Segnalato
Sagitta61 | 384 altre recensioni | Sep 21, 2023 |
Quando riprendo tra le mani uno dei libri che vanno letti almeno una volta nella vita, provo sempre una certa inadeguatezza nel parlarne. Non fa eccezione questo “Sulla strada”, universalmente conosciuto con il titolo originale di “On the road” di Jack Kerouac. Non posso dire sia uno dei libri di quel periodo che mi è piaciuto di più, ma resta senza dubbio, in considerazione dell’epoca in cui è stato pubblicato, un’icona generazionale e della letteratura “beat”. Come mi disse qualche anno fa un appassionato relatore ad un convegno sulla “beat generation” questo “è un romanzo che ha catturato lo spirito ribelle e avventuroso dell'America degli anni '50 ed è diventato un'opera fondamentale nella storia della letteratura americana”. Lo è senza dubbio mi sento di dire, come è certo che questo romanzo uscito nel 1957, ma che snoda la sua narrazione errante in un lasso temporale compreso tra l’immediato secondo dopoguerra e il 1950, rappresenta uno dei testi più influenti e celebri della cultura d’oltreoceano del XX secolo, capace di influenzare anche il pensiero europeo.

Non a caso ne conservo in biblioteca un paio di copie. La prima è questa edizione curata dalla San Paolo all’interno di una collana dedicata ai “Grandi della narrativa” edita nel 1998, che si arricchisce di una sezione iniziale dedicata alla vita dell’autore nato nel 1922 e alle sue opere, con una sintetica, ma efficace bibliografia di approfondimento. La seconda (che recensisco il LT), nella tradizionale edizione degli Oscar Mondadori (1995) nella collana “Scrittori del Novecento”, impreziosita da una bellissima introduzione dedicata alla “beat generation” firmata da Fernanda Pivano. In entrambe le stampe la traduzione è affidata a Magda de Cristofaro.

A priori dico subito che, rivedendo anche i miei paranoici appunti di gioventù sui libri che leggevo (ero già un seguace del culto pagano dei libri, quegli stessi oggetti sovversivi che Ray Bradbury brucia nel 1953 nel suo celebre Fahrenheit 451), che le mie impressioni su “On the road” sono mutate più volte. Se nella foga idealista post adolescenziale lo avevo descritto e raccontato come l’essenza della fuga, dell’indipendenza, della scoperta, dell’esperienza, tanto poi da fare scelte che nella vita riflettono quell’idea e quelle sensazioni (ho scelto di viaggiare per anni in giro per il mondo rinunciando alle certezze di un lavoro sicuro), nella rilettura più matura ne ho ricavato sensazioni certamente più nostalgiche, una visione più distaccata di certi eventi fuori dalle pulsioni dal contesto storico in cui si svolgono. Dunque anche una minore speditezza nella lettura, che a tratti, lo confesso, mi ha quasi disorientato, benché la mia esperienza su latitudini e longitudini mi corra sempre in aiuto. Inseguire Sal Paradiso ed il suo circo di amicizie un po’ folli non è una passeggiata in piano, ma un po’ di cinetosi si può sopportare.

Ne desumo che ciò sia l’effetto di quella che Kerouac stesso ebbe a definire come una “prosa spontanea” e che quella incredibile spontaneità che l’autore trasferisce alla sua scrittura mi è apparsa come l’immagine in velocità delle righe al centro della strada che si percorre. Insomma, si deve metabolizzare la velocità e al contempo il senso dell’istantanea. Si deve cogliere l'istante perché, in quanto tale, è irripetibile, non più rielaborabile all’interno di un testo scritto per catturare il flusso di coscienza e l'energia del movimento, essenza stessa del viaggio che spinge gli interpreti a girovagare con, ma anche senza, una meta precisa. Una necessità vitale per una gioventù ribelle che cerca di sovvertire l’ordine sociale e culturale in cui si trova a vivere e al quale rifiuta di conformarsi.

La Hudson dei protagonisti, che corre, scivola via, quasi senza una rotta precisa, sulle strade d’America, incarna lo spirito d’avventura, la voglia di improvvisazione, di estemporaneità del periodo beat. «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero» diceva Orazio, “mentre parliamo il tempo sta fuggendo, come se ci invidiasse. Cogli l'attimo (afferra il giorno) e spera il meno possibile nel domani”. Il romanzo di Kerouac è un “carpe diem” che ha caratterizzato un’epoca in cui, le ferite ancora aperte di chi tornava dal fronte della Seconda Guerra Mondiale si mescolavano ad un’insofferenza generazionale che contestava i padri, ma anche il sistema del buon vivere americano, delle politiche del potere guerrafondaio e cercava una nuova filosofia di vita. Un ricerca che, negli anni che seguiranno, influenzerà fortemente la gioventù americana, i movimenti pacifisti, le arti, la narrazione della vita stessa.

Per chi non ne abbia mai sentito parlare, dico subito che il romanzo è diviso in cinque parti. Kerouac racconta di una incredibile serie di viaggi in autostop e autobus, in gran parte improvvisati, fatti dal veterano Sal Paradiso (oggi diremmo l’avatar di Kerouac stesso) e dai suoi amici attraverso gli Stati Uniti. Kerouac lo scrisse in poco meno di un mese, nella primavera del 1951 nella sua dimora di New York, rielaborando i suoi diari di viaggio fatti con gli amici tra il 1947 e il 1950. Possiamo quindi chiaramente parlare di un romanzo autobiografico nel quale non è nemmeno molto difficile identificare protagonisti e attori: se Sal Paradise, aspirante scrittore in cerca di ispirazione, è l’alter ego di Kerouac, il controverso amico Dean Moriarty, carismatico, istintivo, che nell’avventura trova il senso puro della libertà, certamente si ispira a Neal Cassady. A completare il cast troviamo poi Carlo Marx (Allen Ginsberg) e Old Bull Lee (William S. Burroughs).

In un’America in grande fermento, dove lo scontro generazionale va salendo, Sal, nell’inverno del 1947, conosce Dean Moriarty da poco uscito di prigione e novello sposo, con un concetto assolutamente beat del matrimonio libero, poligamo e “sperimentale”. Insieme a loro bazzicano tra locali e comuni improvvisate un gruppo di giovani pensatori tra cui, il nome è già un programma, Carlo Marx il poeta. La filosofia di vita di Moriarty è contagiante. La sua visione libertaria della società, talvolta fortemente egocentrica, perennemente alla ricerca di esperienze al limite, con ampio abuso di alcol e droghe, influenza il gruppo, ma soprattutto Sal, alimentando nel giovane protagonista una sorta di idolatria nei suoi confronti, nonché la brama di evasione da confini geografici e barriere ideologiche, dalle convenzioni, dalla necessità di sperimentare e allargare i propri orizzonti di bravo ragazzo americano. E il viaggio è la via di fuga, la dimensione errabonda e dell’avventura che lo porterà a percorrere la mitica Route 66, a scivolare da una costa all’altra degli States, a San Francisco e Los Angeles, dove conosce una ragazza messicana di cui si innamora, nelle grandi distese del Midwest, tra i Grandi Laghi, nelle paludi del profondo sud oggi tanto care alla scrittura di Lansdale. Colonna sonora del viaggio per antonomasia è il jazz primigenio, il be bop alla Miles Davis e la voce dai riflessi blues di Billie Holiday.

“In principio il nostro viaggio fu piovigginoso e misterioso. Potevo capire che tutto stava per diventare una gran saga nella nebbia. “Urrà” urlava Dean. “Ecco che andiamo!” E si rannicchiava sul volante e lanciava la macchina come un bolide; era tornato nel suo elemento, ognuno di noi poteva vederlo. Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare” (“On the road” di Jack Kerouac).

Non è la meta che importa, è il viaggio. Non è un viaggio, sono tanti viaggi. Che messi insieme rappresentano nella narrazione di Kerouac una rivoluzione culturale capace di catturare l'essenza e l'energia della controcultura beatnik degli anni '50 e influenzare generazioni a venire di artisti, scrittori e musicisti. Nel libro però, quasi tutto dovesse avere una fine per ritrovare una rinascita, Sal, complice una malattia, inizia a distaccarsi da Dean, ne comprende l’egoismo dell’abbandono e umanizza il mito, non lo colpevolizza perché in lui matura la consapevolezza che è il momento di scegliere cosa fare della propria vita, lasciando il compagno di tante avventure alla esistenza errabonda e sbandata che egli si è scelto

Credo di aver già detto molto su un libro su cui è stato scritto davvero tutto e mi sarebbe oltremodo difficile, nello spazio che mi sono accordato, elaborare un trattato sulla cultura e sulla generazione beat. Per questo rimando all’ottima presentazione di Fernanda Pivano nell'edizione Oscar Mondadori che fa un racconto e un'analisi accurata del fenomeno. Chiudo con un pettegolezzo, una piccola faziosità sollevata da alcuni, tra questi il critico
Ronald K.L. Collins che, dalle pagine del Washington Post, insinua il dubbio che forse, senza quella fortuita, brillante, convincente recensione a firma di Gilbert Millstein sul New York Times (era il settembre del 1957), “On the road” sarebbe stato un libro qualunque. Millstein, che influenzò certamente altri recensori dopo di lui, ne parlò come di “un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte” e aggiunse definendo il libro come “l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”.

Va da sé che un libro cult generazionale come “Sulla strada” ha da sempre raccolto intorno a sé grandi estimatori che lo hanno esaltato per aver offerto una onesta rappresentazione della gioventù dell'epoca e dei propri ideali, così come di detrattori che lo hanno aspramente criticato per aver enfatizzato uno stile di vita anarchico, senza regole e persino autodistruttivo. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto senza quella fatidica recensione, quello che però possiamo affermare con certezza è che “Sulla strada/On the Road" ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura e la cultura americana, influenzando scrittori e autori come Bob Dylan, Allen Ginsberg e Hunter S. Thompson. Ha anche ispirato molte persone a intraprendere viaggi simili in cerca di avventura e del significato della vita.
… (altro)
 
Segnalato
Sagitta61 | 384 altre recensioni | Sep 21, 2023 |
Pensavo meglio. Non che sia un brutto libro, per carità, però è un libro senza molto senso. La storia di infinite peregrinazioni in auto fra New York e San Francisco, almeno quattro volte, con una deviazione finale verso il Messico.
Autovetture sempre ridotte male, a fine corsa, pochi soldi in tasca, grande amore per il jazz e per il basket.
Però è solo il racconto di una lunghissima peregrinazione, attraverso paesi sentiti, con storie quasi inverosimili in orari inverosimili, multipli amori, tutto sul confine fra realtà e irraltà (non fantasia, sarebbe irrazionale) in un'America fine anni '40, subito dopo la guerra, pronta all'ennesimo grande sogno degli anni '60.
Non c'è una trama, non c'è un filo logico che lega il tutto se non L'ANDARE, comunque ANDARE. E questo alla fine mi ha un po' stufato.
… (altro)
½
 
Segnalato
sbaldi59 | 384 altre recensioni | Jun 6, 2023 |

Liste

Beat (7)
1960s (1)
Read (1)
1940s (1)
Books (1)
1950s (3)
Read (1)
100 (1)

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Henry Miller Foreword
Paul Marion Editor, Introduction
Simon Fell Cover artist
Ray Porter Narrator
Hector Garrido Cover artist
Bruno Armando Translator
Hans Hermann Translator
Robert Frank Cover Photograph
Arto Lappi Translator
Anne Waldman Introduction
Eric Mottram Introduction
Jerry Tallmer Introduction
Nicolas Richard Translator
Josée Kamoun Sélection de la correspondance pour l'édition française

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