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Autore di La luna e i falò

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Recensioni

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La gentile societta e l’esilissimo equino mi hanno regalato “La luna e i falò” che avevo letto non molto tempo fa e che non mi aveva entusiasmato. Lo riprendo in mano, nelle more ho letto “Lavorare stanca” che ho considerato un capolavoro e la seconda lettura è andata sicuramente meglio della prima. A dimostrazione che i libri vanno inquadrati in un contesto ordinato per poterli giudicare. Il protagonista, Anguilla, è nato nella miseria delle langhe ed è stato adottato da una famiglia di contadini. Cresciuto perché sarebbe diventato uomo e così avrebbe potuto mettere le sue braccia a disposizione della famiglia di adozione. Poi negli anni Anguilla se ne è andato dal piccolo paese ed ha fatto fortuna negli Stati Uniti. Il romanzo racconta le sensazioni che l’uomo vive al ritorno nel paese d’origine. La luna che illumina il paese e i falò accesi dai contadini per invocare il buon raccolto sono il filo conduttore del racconto Lo stile di Pavese è inconfondibile, la capacità di scrittura impressionante, ma anche questa volta qualcosa nella lettura mi disorienta, ecco manca il piacere che trovo nei grandi libri, la felicità nell’immersione. Ma devo dire che rileggere questo libro, tra l’altro in questa edizione con un ricco corredo antologico di critica letteraria, era doveroso, giudizio troppo negativo quello della prima volta, e ancora un merito alla coppietta che più bella che c’è.½
 
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grandeghi | 26 altre recensioni | May 13, 2024 |
La luna e i falò, ultimo romanzo di Cesare Pavese, è denso di significato ed è la sintesi dei temi cari all'autore. Come mi era già accaduto leggendo Paesi tuoi (qui la mia recensione), Pavese ha la capacità di catapultare il lettore in un mondo contadino ormai quasi perduto e di farglielo percepire a tutto tondo.

Ci sono, infatti, in questo romanzo un aspetto fanciullesco della campagna e un aspetto più adulto, a tratti oscuro. Quando il protagonista ritorna in campagna, si tratta di un ritorno nei luoghi della sua giovinezza, con gli occhi della quale tutto gli sembrava luminoso e pieno di vita. Il suo sguardo di adulto, invece, coglie le ombre di questo mondo apparentemente bucolico e semplice.

De La luna e i falò, poi, mi ha colpito moltissimo la solitudine che traspare dalle pagine. Il protagonista, orfano ed emigrato in cerca di fortuna, ritorna nella sua terra natale in cerca delle sue radici. Tuttavia, ben presto si renderà conto di essere troppo cambiato per trovare alcunché nella campagna dov'è cresciuto: il suo vecchio amico Nuto gli dirà, infatti, che, prima di pontificare sull'ininfluenza delle fasi lunari e dei falò propiziatori, avrebbe dovuto tornare a essere un contadino. Così il protagonista si ritroverà incapace di riadattarsi alla vita di campagna, pur non essendo del tutto a suo agio nella vita di città: la sua solitudine sarà tanto profonda proprio per il suo essere sradicato, per la sua condizione esule senza una famiglia dalla quale partire e ritornare.

Sapendo che La luna e i falò fu scritto da Pavese tra settembre e novembre 1949 e che nell'agosto 1950 l'autore si sarebbe suicidato in una stanza d'albergo, questo senso di solitudine incolmabile mi ha scosso parecchio. Forse mi sono autosuggestionata, ma l'idea che qualcuno di senta così solo da non poter essere raggiunto da nessuno dei suoi affetti mi ha dato molto da pensare. “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”: questo è stato il biglietto di addio di Pavese, sulla falsariga di quello di Majakovskij. Come a dire, sono passato, ho rotto le scatole a qualcuno e qualcuno le ha rotte a me: abbiate pazienza, ora levo le tende e amici come prima.
 
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lasiepedimore | 26 altre recensioni | Sep 12, 2023 |
Paesi tuoi è un libro dal sapore antico: ci riporta indietro in un tempo in cui campagna e città erano davvero i due mondi inconciliabili de Il topo di città e il topo di campagna di Esopo.

Berto e Talino si sono incontrati in prigione: il primo è un torinese avvezzo alla vita cittadina, mentre il secondo è un contadino. Già nella descrizione del loro comportamento all'uscita dal carcere avvertiamo la dicotomia città/campagna. Talino è palesemente impacciato davanti alle dinamiche cittadine così familiari a Berto, che, nei suoi pensieri, non fa che compatire l'ignoranza del compagno.

La situazione, però, si capovolge dal momento in cui Berto si lascia convincere ad andare a casa di Talino, allettato da un lavoro certo. Le dinamiche della campagna e, in particolare, della famiglia di Talino disorientano Berto – e, insieme a lui, anche noi lettori siamo sconcertati da ciò che avviene in quella famiglia.

La prosa di Pavese, infatti, nella sua scarna essenzialità, si riempie di allusioni sessuali, di mele addentate e sguardi segreti, e questo gioco di dire-non-dire finirà per nascondere, o perlomeno per rendere “ignorabile”, il lato oscuro di questa famiglia contadina.

Infatti, se da un lato Berto (e noi lettori con lui) non può che condannare la violenza, sia verbale sia fisica, che si scatena tra le mura della casa paterna di Talino, dall'alto non è in grado di affrontarla. La sua mente cittadina e civilizzata non riesce a inquadrata e metabolizzare la brutalità di Talino e quindi decide di ignorarla, di ascriverla al rassicurante regno del fraintendimento.

L'epilogo, devastante nella sua insensata ferocia, costringerà Berto a vedere la realtà ancestrale di un mondo senza umanità: gli occhi di Talino diventano quelli di una cane braccato e i suoi familiari, così assuefatti alla violenza da considerarla inevitabile, tornano alla vita quotidiana con una rapidità incomprensibile a Berto, che, benché capace di inorridire di fronte alla brutalità, si è rivelato altrettanto incapace dal cercare di evitarla.
 
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lasiepedimore | 2 altre recensioni | Sep 1, 2023 |
Ho iniziato a leggere Cesare Pavese da ragazzo e poi l’ho abbandonato. E mi riavvicino alle sue poesie ormai con una bella età, l’approccio è necessariamente diverso. Non sono un buon lettore di poesie, anzi, comprendo la bellezza di alcune, ne resto affascinato, ma le raccolte mi lasciano sempre spaesato. Questa volta no. Leggo e rileggo queste poesie e mi ci trovo, mi rispecchio nell’uomo solo di “Lavorare stanca” o nella triste constatazione di “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”. Ma nella poesia di Pavese, nei suoi paesaggi non c’è solo la difficoltà di un uomo ad affrontare quel grande macigno che è la vita, ma tutta la cultura del secolo scorso, la terra di origine diventa una forte radice che non pone limiti. Un libretto da tenere sul comodino per leggere e rileggere gli splendidi versi di Pavese, senza il vincolo della tradizionale metrica, liberi e così liberandosi dal peso del vivere. Poi arriverà la morte ed avrà i tuoi occhi. Meraviglioso.
 
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grandeghi | 2 altre recensioni | Feb 20, 2023 |
 
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ScarpaOderzo | Apr 13, 2020 |
 
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ScarpaOderzo | 10 altre recensioni | Apr 13, 2020 |
 
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ScarpaOderzo | 10 altre recensioni | Apr 13, 2020 |
 
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ScarpaOderzo | Apr 13, 2020 |
 
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ScarpaOderzo | 2 altre recensioni | Apr 13, 2020 |
In copertina, in basso, è evidenziato: “il capolavoro di Cesare Pavese”. Non mi sembra, oggettivamente, un capolavoro. La luna ed i falò è un romanzo breve ambientato nelle langhe dell’immediato dopoguerra e racconta in ritorno in patria di Anguilla. I temi sono arcinoti, al punto da essere triti e ritriti, quelli della liberazione, della lotta partigiana, delle tensioni civili. Ciò detto a me questo libro davvero non è piaciuto. Partendo dalla prosa che, curata al minimo dettaglio, risulta estremante pedante costringendo il lettore ad uno sforzo inutile rispetto al risultato raggiunto. Certo Pavese è un poeta e, pertanto, le licenze gli sono dovute. Ma il lettore affronta un romanzo: e d’altronde se così non fosse, come possibile, siamo lontani da livelli alti di prosa che possano indurre alla poesia. La storia, alla fine, si intreccia, perde fluidità e, per me, è stata una lettura difficile e che non mi ha dato piacere. E di questo libro non mi è rimasto nulla.
 
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grandeghi | 26 altre recensioni | Dec 30, 2019 |
Sono passati più di 40 anni dalla prima lettura di questo libro e il tempo ha lasciato le sue tracce sia sul libro che sul suo lettore.
Mi piaceva Pavese. Ritrovavo nei suoi personaggi la mia sensibilità asciutta, le mie poche parole, la curiosità per un mondo da capire. Ma facevo fatica a capire la disillusione, il disincanto, la malinconia della mancanza e della perdita.
Ora alcune frasi le sento più vicine: i luoghi che conservano tracce di noi; il cambiare di tutto che poi resta tutto lo stesso; il qualcosa che manca, sempre; la voglia irrisolta di cambiare il mondo; la voglia di scavalcare la collina per trovare un mondo diverso, ma scoprire che è sempre lo stesso mondo di qua e di là; scoprire che passata la collina non si è più a casa propria, mai più, neanche a tornare indietro. E chiedersi allora che cosa è rimasto? Se una traccia è rimasta davvero. Se davvero valeva la pena o se non sarebbe stato più facile altrimenti.
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claudio.marchisio | 26 altre recensioni | Dec 29, 2019 |
La storia umana e intellettuale di Cesare Pavese. Un epistolario che si configura quasi come una sorta di «diario pubblico» e consegna al lettore l’autoritratto di un uomo immenso, intenso. Da leggere insieme al “Mestiere di vivere”.
 
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BiblioLorenzoLodi | Dec 8, 2019 |
Forse perché i miei primi ricordi nascono nelle Langhe ne 1943 questo libro mi ha molto commosso
 
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emiliom | 26 altre recensioni | Apr 9, 2019 |
Premio Strega 1950
 
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casafallai | 14 altre recensioni | Mar 14, 2019 |
La bella estate
Se fosse solo per la lunghezza, sarebbe arduo definire romanzo questo lungo racconto scritto appena prima della seconda guerra mondiale, ma la storia che contiene è così ben conclusa in se stessa e ricca di sfaccettature nei personaggi da far dimenticare qualsiasi questione riguardante l’esiguo numero di pagine. Scorrendole, ci si appassiona al percorso di formazione della giovane Ginia dalla rigogliosa, ultima estate della sua giovinezza all’inverno dello scontento che la traghetta nell’età adulta: impatto ancor più doloroso per lei che adulta già pensa di esserlo – senza genitori, vive da sola con il fratello e lavora come modista – e invece non è preparata ad affrontare gli eventi e, soprattutto, le persone. Lasciate le amiche d’infanzia, si lascia trascinare dalla navigata Amelia nel piccolo sottobosco artistico che lei frequenta come ‘modella’: un giro di pittori di dubbie qualità, ma che ostentano un fascino bohemienne che fa colpo sull gentil sesso, specie se ingenuo. L’irregolare Rodrigues, il fascinoso Guido, il rapporto che si va intorbidando con la sua guida fanno di Ginia una ragazzina confusa che finisce per concedersi per un sentimento (tra l’altro molto acerbo) che con ogni probabilità sa non corrisposto mentre si alternano le bevute nella soffitta dei due uomini e le uscite fatte di chiacchiere con Amelia che si scopre malata. L’inquietudine della protagonista si placa solo quando accetta che una stagione, ovvero ‘la bella estate’, si è chiusa e si può/deve andare avanti magari chiudendo i sogni nel cassetto: la primavera arriva con l’avvisaglia della guarigione dell’amica. Quello che spunta alla conclusione è l’unico raggio di sole che brilla in una vicenda cupa in cui Pavese ci offre uno sguardo cinico sul genere umano: Ginia e le figure che la attorniano, per quanto si atteggino, sono come pupazzi trascinati dalle inevitabili esigenze dell’esistenza e la critica agli ambienti artistoidi fa il paio con una visione non edulcorata degli strati popolari, segnati sovente da ignoranza e piccineria. Malgrado il suo destino di vaso di coccio, la simpatia dell’autore non va neppure alla sua piccola donna che subisce senza reagire: i dialoghi spezzati e le descrizioni che restituiscono una Torino sempre più fredda e in qualche modo ostile consentono comunque alla storia di entrare nella memoria accompagnata da un’inevitabile sensazione di malessere.

Il diavolo sulle colline
Tre amici universitari trascorrono i mesi estivi a Torino sentendosi vivi soprattutto durante le scorribande notturne piene di chiacchiere e multiformi, per quanto lontane, tentazioni. la svolta improvvisa giunge quando, durate un'escursione - sempre di notte - sulle colline attorno alla città, incontrano Poli, un riccastro pieno di cocaina che è conosciuto alla lontana da uno di loro, Oreste, originario delle Langhe Il giovanotto è il rampollo debosciato di una famiglia abbiente e li trascina in una confusa giostra tra night e paesini appisolati in compagnia della sua matura amante. Quando il rapporto tra i due vira in tragedia, per i ragazzi pare tornare tutto alla normalità, incluso il programmato trasferimento in campagna da Oreste. Qui però, dopo una sorta di idillio agreste, le loro strade reincrociano quelle di Poli e della di lui moglie Gabriella: la convivenza nella villa di questi ultimi, tra nuove prospettive e vizi diffusi, segna la vita dei giovani, forse cambiandone la vita per sempre (almeno per uno di loro). E' evidente come il libro sia a tesi - la corruzione dei ricchi cittadini a confronto con una certa qual purezza della vita contadina - ma la capacità dello scrittore di descrivere in profondità le situazioni e gli stati d'animo consente di superare il problema (se è un problema) con facilità: solo nel finale, con la stereotipata rappresentazione degli amici di Poli, la forzatura iniza a farsi stridente. Tutto quello che vien prima invece affascina, seppur nella sua quotidiana semplicità: i giorni e le notti di Torino, inclusa la titubante escursione sul Po del narratore in compagnia di una ragazza, e l'inserimento nella realtà della famiglia di Oreste, con il padre in rapporto quasi simbiotico con la vigna, la madre in casa che si occupa di tutto quanto, la zia bigotta e la testarda coppia di cugini che vivono un po' selvatici sull'altro versante, ma fanno il vino buono. Tra un bicchiere e l'altro - la sobrietà non è la prima preoccupazione per nessuno - l'estate avvolge i tre protagonisti con la sua luce che acceca e le sensazioni lussureggianti che colpiscono gli altri sensi, nascondendo sotto la scorza della prorompente vitalità il disfacimento che aumenta con il passare dei giorni, giustificando almeno in parte i paragoni mortuari di Pieretto. Bene: tutto questo po' po' di roba - e di fuggita possiamo aggiungere le suggestioni alla Fitzgerald che scaturiscono dalla figura di Poli, assai probabili nell'americanista Pavese - è contenuto in poco più di centocinquanta pagine: a testimonianza della capacità dello scrittore di rendere un'immagine con poche, intense pennellate che vanno a creare un ritmo lento eppure implacabile nell'afferrare il lettore che sappia farsi coinvolgere.

Tra donne sole
Vuoi vedere che Ginia ce l’ha fatta? E’ impossibile sottrarsi al sottile fascino di collegare questo lavoro a ‘La bella estate’, uscito dieci anni prima, e vederlo come il desiderio dell’autore di analizzare l’altro lato della medaglia. Figlia della Torino operaia, Clelia ha fatto fortuna andandosene dal capoluogo piemontese in compagnia di tal – guarda caso - Guido in direzione Roma: quando l’amore è finito, si è costruita una carriera nel mondo della moda ed eccola di ritorno nella città natale allo scopo di curare l’apertura di un negozio per la griffe per cui lavora. Considerato il target, entra in contatto con un ambiente medio-alto borghese, mentre al suo vecchio quartiere riserva una sola visita in cui la nostalgia viene ben presto spazzata dalla grettezza umana. Non che i personaggi con cui si accompagna siano meglio: ragazze e ragazzi annoiati che, tra una gita in montagna e una in Riviera, conducono esistenze di nessuna prospettiva nelle quali anche il tentato suicidio di Rosetta, la più fragile fra di loro, non è altro che l’ennesimo argomento di cui blaterare senza costrutto. Ritornano le velleità artistiche – il pittore nell’atelier, il tentativo di fare teatro – ma sono tutti castelli in aria come pure il capriccio di esplorare la vita ‘vera’ (e osterie di bassa lega, il casino), scuse per trovare una sensazione alternativa ai piccoli ricevimenti e ai veglioni di un tristissimo carnevale in cui si annega fra le chiacchiere inutili. Il complesso rapporto di Pavese con l’altra metà del cielo si delinea in figure femminili dominate dalla futilità e dalla irresolutezza, delle quali Clelia è un parziale contraltare grazie alla professione e alla capacità di scegliere (compagnie maschili incluse): non siamo però di fronte a un romanzo misogino, semmai misantropo visto che le gli uomini non non sanno superare l’ambiguità e la piccolezza che le contraddistingue. Se Momina o Mariella sono ricche rampolle annoiate e Nene capace solo di sprecare i propri talenti, il bel Fefè pensa esclusivamente alle feste e Loris il pittore è pieno di sé, per non parlare dell’assatanato architetto d’interni Febo per il quale pare che le donne siano prede da cacciare. In queste pagine, lo scrittore si è ormai allontanato dal neorealismo: gli interesse lo studio delle psicologie e il loro interagire con la quotidianità, così che non pare un caso che Antonioni abbia utilizzato l’opera come soggetto de ‘Le amiche’. Soprattutto, si percepisce un pessimismo di fondo che diffonde una patina di malinconia particolarmente significativa vista con il senno del poi: pochi mesi dopo aver descritto il destino di Rosetta, Pavese vi fece seguire il suo.
 
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catcarlo | 14 altre recensioni | Mar 3, 2018 |
semi riconciliazione con Pavese, grazie a questi due racconti così vicini a "La bella estate" da sentirne l'aria. "Il carcere" è la storia di un confinato politico e della sua vita quotidiana senza slanci eroici; "In collina" racconta del rifugio preventivo di un anonimo prof fuori città, poi della sua fuga e dell'essere sopravvisuto senza aver fatto niente!
 
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ShanaPat | 2 altre recensioni | Oct 10, 2017 |
odio Pavese, ma ancor più odio la campagna! odio le storie di incesto e trucchetti meschini neorealistici...il protagonista, uscendo dal carcere, si associa ad un compagno contadino che se lo porta al paesello. lì si innamora di una delle sorelle. tragedia finale
 
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ShanaPat | 2 altre recensioni | Oct 10, 2017 |
La luna e i falò
Con il susseguirsi dei romanzi, la scrittura di Pavese si fa più densa, così che i testi si accorciano diventando al contempo più sfaccettati, ricchi come sono di molteplici spunti e sensazioni. Inevitabile che fra queste pagine, le ultime pubblicate dall’autore piemontese, il processo sia giunto a un significativo livello di perfezionamento andando a innervare un libro che emoziona in profondità lasciando a più riprese il lettore ad annaspare meravigliato nell’abbraccio di lunghe descrizioni interiori ed esteriori che mettono sovente in secondo piano il dialogo. Lo scrittore prima blandisce dipingendo una sorta di idillio agreste per poi disturbare narrando con dolente partecipazione l’asperità della vicenda umana sino a inserire una nota di gotico delle Langhe nella sventurata famiglia del Valino. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il protagonista, che come al solito parla in prima persona, torna da uomo realizzato nel paese dove è cresciuto trovatello con il soprannome di Anguilla, prima nella povera casa del Padrino (grazie ai contributi elargiti a chi si prendeva un orfano da sfamare) e poi nella signorile tenuta della Mora: un insopprimibile desiderio di fuga l’ha portato prima a Genova e poi negli Stati Uniti, dove il suo spaesamento è reso da un’atmosfera tanto distaccata e sterile quanto appassionata è quella che avvolge i luoghi d’orgine, finchè le radici non hanno chiamato. Ritrova il vecchio sodale Nuto che, al polo opposto, è rimasto accanto alla propria gente e – al suo fianco anche quando cerca di opporvisi – penetra a fondo nella realtà locale scoprendo che le ombre prevalgono sulle luci. I piani temporali risultano intersecati, con il passato che tende a prendere il sopravvento attraverso episodi più lunghi, mentre quelli che descrivono il presente sono limitati sovente a solo un paio di pagine: indipendentemente dall’estensione, i singoli capitoli sono spesso dei piccoli racconti a sé, lavorati con cura alla ricerca di un equilibrio interno. E’ come se, dopo il luminoso piano sequenza iniziale che coglie la valle del Belbo piena di sole (l’io narrante vi trascorre le vacanze estive), Pavese utilizzasse uno zoom per stringere la visuale addosso alla piccola comunità mettendo in luce magagne antiche e nuove: oltre alle feste di piazza e al lavoro dei campi (della vigna) che a un ragazzo pare un’esperienza comunque vivificante, ci sono le piccole miserie di ogni giorno, i bisogni concreti e quelli fittizi, le difficoltà delle relazioni interpersonali. Il crollo dei punti di riferimento giovanili è al contempo un ritratto dell’imprevedibilità dell’esistenza, con il caso che a volte gioca a dadi con i poveri – ad esempio, la triste fine del Padrino - e una certa debolezza spirituale che frega i benestanti (sempre meno benestanti di qualcun altro) come la in apparenza intoccabile famiglia del Cavaliere: impossibile non vedere un certo parallelismo nei destini delle sorellastre di Anguilla e delle figlie viziate del padrone della Mora. Uomini che mirano ai soldi o alla roba (poca o tanta che sia), botte, femminicidio: durissimo è il destino delle donne in questo libro, fino alle angoscianti scene nella povera fattoria del Valino al cui ineluttabile fato riesce a sfuggire solo Cinto, il piccolo storpio in cui il protagonista un po’ si rivede. Una storia, quest’ultima, che spiega, assieme alla detestabile figura del parroco, come, malgrado i sogni e le speranze, non molto sia cambiato tra prima e dopo la guerra che Nuto ha vissuto a fondo anche se non ne parla volentieri, in fondo è pur sempre un piemontese. Solo quando pensa che Anguilla non riesca del tutto a capire, lo trascina con sé in faticose camminate su per le colline - in mezzo a una natura matrigna, tra sterpi ed erbacce ingiallite e sassi, ben lontana dalla dolcezza della vigna – nell’attesa di rievocare l’orrore che genera l’esperienza bellica quando tocca da vicino in una chiusa secca e terribile.

Il compagno
Ovvero della presa di coscienza delle masse. E’ lo stesso Pavese ad annotarlo in una breve postfazione: dopo le opere dedicate alla nascita della ribellione nelle classi più colte o agiate, è giunta ora di raccontare come pure gli strati più popolari hanno cominciato a non accettare più l’opporessione del regime (l’azione si svolge indicativamente alla fine degli anni Trenta). Non è però il suo essere a tesi a zavorrare il romanzo – in fondo lo sono tutti i lavori dello scrittore piemontese e ciò non impedisce loro di essere in molti casi dei capolavori: il problema è che si succedono i capitoli, ma la scintilla non scocca mai, lasciando il lettore orfano di una partecipazione emotiva che non può essere certo compensata dall’architettura intellettuale. Non contribuiscono i forse troppi personaggi che affollano quelle che sono comunque solo centocinquanta pagine: è difficile entrare in sintonia già a partire dalla figura principale. E’ probabile che l’antipatia che ispira per tre quarti almeno della vicenda sia funzionale al progetto di base, ma la caratterizzazione risulta spesso forzata: Paolo, detto Pablo perché suona bene la chitarra, è un giovanotto senza arte né parte che ignora il negozietto di famiglia per trascorrere notti di bagordi tra sbronze, balere e, se possibile, donne. Di queste ultime, va a scegliersi quella dell’amico appena rimasto paralizzato e la ragazza, Linda, lo mette in contatto con un danaroso impresario teatrale e il suo giro: le debosce assomigliano parecchio a quelle de ‘Il diavolo in collina’ – seppur qui, magari per il minore coinvolgimento, risultino più stereotipate - finchè la donna molla Pablo per l’impresario suddetto (nonchè per i suoi soldi) facendo sprofondare il protagonista in un mare di lacrime o, per essere più precisi, di bottiglie di vino. La faticosa risalita avviene attraverso il lavoro manuale e il trasferimento da Torino a Roma, in una primavera e in un’estate calde e accoglienti tanto quanto era stato freddo e umido l’inverno padano: un processo lento che si sviluppa come conseguenza dei contatti, oltre che con i libri, con gli embrioni delle varie sfaccettature della resistenza che fanno crescere l’uomo sia sul lato pubblico, sia su quello privato. Il giudizio politico è peraltro deciso, oltre che datato, con la contrapposizione tra il velleitarismo del gruppo che ruota attorno al gobbo Carletto e l’organizzazione comunista in cui lo introduce Giuseppe fino a farlo incontrare con Gino, reduce dalla Spagna sconfitto ma intenzionato a continuare a lottare. L’eccesso di strumentalizzazione che ne deriva conduce alla mancanza di sintonia accennata in precedenza, a partire da Linda che si rivela poco più che una smorfiosa opportunista con la quale Pablo non trova di meglio che ricascarci anche a distanza di tempo: i loro dialoghi, spezzati e senza coesione, ben rappresentano le difficoltà di comunicazione presenti in tutto il libro. Così, benché si parli moltissimo, a rimanere nella memoria sono soprattutto alcuni splendidi squarci descrittivi: le notti torinesi ora nebbiose ora limpide con la luna che fa brillare la neve oppure le tinte rotonde dei pomeriggi e delle serate romani trascorsi passeggiando lungo il fiume o chiacchierando sotto il pergolato di un’osteria.
 
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catcarlo | Mar 3, 2017 |
Se è vero che, come pare almeno in parte vero leggendo la vita dello scrittore, siamo di fronte a un romanzo autobiografico, Pavese aveva quantomeno dei grossi dubbi su se stesso, sul suo mondo e su come era andata sviluppandosi la propria esistenza: il protagonista Corrado è infatti non solo un uomo senza qualità, ma mette pure in mostra difetti tali che vien voglia di prenderlo a sberle quasi a ogni capitolo. Oltre a configurarsi come la rappresentazione dell’intellettuale intento a crogiolarsi nel proprio complesso di superiorità mentre se ne sta chiuso in una torre d’avorio, egli è anche un pusillanime eternamente indeciso che, non riuscendo neppure a riscattare il vile comportamento giovanile nei confronti del primo amore, figurarsi se può far altro che rimanere in pratica paralizzato nell’istante in cui la guerra richiede una presa di posizione tanto che, quando decide di agire, lo fa soltanto per fuggire. Nel ’43, egli insegna a Torino, ma vive riparato dai bombardamenti in collina a pensione nella villa di una zitella innamorata segretamente di lui e della di lei madre. Girovagando per i boschi, capita in un’osteria dove fa base un gruppo di giovani che comprende Cate, sua fiamma adolescenziale tenuta lontana perché non ritenuta all’altezza: la donna, che ha un figlio che si chiama come lui, e gli altri lo accettano, ma laddove, dopo il settembre, la situazione si aggrava, i loro percorsi si divideranno di nuovo. Stordito e irresoluto, Corrado viene salvato, assieme al ragazzo, dalla sua padrona di casa – anch’ella si dimostra alla fine più viva e responsabile di lui – prima che la paura lo spinga ancora una volta a scappare, questa volta in direzione del più sicuro paese natio. L’accurata descrizione degli stati d’animo della figura principale è accompagnata dall’altrettanto preciso disegno delle figure di contorno, fra le quali spiccano i vitali frequentatori della locanda, le donne sconfitte dalla vita (a ben guardare sia Cate sia Elvira lo sono), gli anziani che guardano parlando poco e soffrendo molto, i sommersi e i salvati - più i voltagabbana - che cercano di adattarsi ai nuovi padroni (i colleghi Lucini e Castelli). Di pari rilievo, come sempre in Pavese, è però l’importanza della natura, in mezzo alla quale Corrado riesce forse a provare una compiuta felicità: il paesaggio collinare è dipinto con mano felice nello scorrere delle stagioni, fra alberi frondosi, sterpaglie, radure a prato illuminate dal sole, strade e sentieri che in un momento sono innocui e un attimo dopo nascondono insidiosi pericoli, basta che cambi l’atteggiamento degli uomini che li frequentano. Un pessimismo diffuso sull’essere umano che è presente finanche nell’incontro con la lotta partigiana: in ogni caso, Corrado pensa bene di svicolare e non è sufficiente come scusa il colloquio con Giorni, salito in montagna malgrado i trascorsi da fervente fascista. Il tutto raccontato con la consueta, mirabile lingua che lo scrittore piemontese porta qui a livelli davvero alti: un modo di raccontare solo all’apparenza semplice, ravvivato dagli accenti dialettali e segnato da una cadenza che, rendendolo subito riconoscibile, dà l’impressione al lettore di sprofondare in un caldo abbraccio. In fondo all’edizione in mio possesso, una vecchia Einaudi per la scuola media) vi sono alcuni racconti che non molto si discostano come tematiche e scrittura: il rapporto dell’adulto o del giovane con la natura - ovvero la collina - per ‘L’eremita’ e ‘Il mare’, l’irresolutezza nelle decisioni de ‘Il signor Pietro’ nonché, soprattutto, un’acuta nostalgia per un mondo passato che è ormai morto o sta morendo nel quale non è difficile riconoscere quello dell’infanzia dell’autore. Una prospettiva, quest’ultima, che fa risaltare brani brevi ma assai intensi come ‘La vigna’ e quel ‘Vecchio mesttiere’ che si può ritenere il migliore del lotto grazie anche a una chiusa esemplare.
 
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catcarlo | 2 altre recensioni | Feb 3, 2016 |
pittoresco
ma anche per questo inutile
meglio di altra roba di pavese comunque
 
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manorfarm | 26 altre recensioni | Jul 3, 2015 |
Ritorno a Pavese dopo tanti anni e trovo che sono ancora vivi e giustificati i ricordi adolescenziali (o giù di lì) di stordenti estati piene degli umori della natura, di amicizie profonde come solo quelle giovanili sanno essere, di una scrittura classica eppure (un po') a sorpresa coinvolgente. Tre amici universitari trascorrono i mesi estivi a Torino sentendosi vivi soprattutto durante le scorribande notturne piene di chiacchiere e multiformi, per quanto lontane, tentazioni. la svolta improvvisa giunge quando, durate un'escursione - sempre di notte - sulle colline attorno alla città, incontrano Poli, un riccastro pieno di cocaina che è conosciuto alla lontana da uno di loro, Oreste, originario delle Langhe Il giovanotto è il rampollo debosciato di una famiglia abbiente e li trascina in una confusa giostra tra night e paesini appisolati in compagnia della sua matura amante. Quando il rapporto tra i due vira in tragedia, per i ragazzi pare tornare tutto alla normalità, incluso il programmato trasferimento in campagna da Oreste. Qui però, dopo una sorta di idillio agreste, le loro strade reincrociano quelle di Poli e della di lui moglie Gabriella: la convivenza nella villa di questi ultimi, tra nuove prospettive e vizi diffusi, segna la vita dei giovani, forse cambiandone la vita per sempre (almeno per uno di loro). E' evidente come il libro sia a tesi - la corruzione dei ricchi cittadini a confronto con una certa qual purezza della vita contadina - ma la capacità dello scrittore di descrivere in profondità le situazioni e gli stati d'animo consente di superare il problema (se è un problema) con facilità: solo nel finale, con la stereotipata rappresentazione degli amici di Poli, la forzatura iniza a farsi stridente. Tutto quello che vien prima invece affascina, seppur nella sua quotidiana semplicità: i giorni e le notti di Torino, inclusa la titubante escursione sul Po del narratore in compagnia di una ragazza, e l'inserimento nella realtà della famiglia di Oreste, con il padre in rapporto quasi simbiotico con la vigna, la madre in casa che si occupa di tutto quanto, la zia bigotta e la testarda coppia di cugini che vivono un po' selvatici sull'altro versante, ma fanno il vino buono. Tra un bicchiere e l'altro - la sobrietà non è la prima preoccupazione per nessuno - l'estate avvolge i tre protagonisti con la sua luce che acceca e le sensazioni lussureggianti che colpiscono gli altri sensi, nascondendo sotto la scorza della prorompente vitalità il disfacimento che aumenta conil passare dei giorni, giustificando almeno in parte i paragoni mortuari di Pieretto. Bene: tutto questo po' po' di roba - e di fuggita possiamo aggiungere le suggestioni alla Fitzgerald che scaturiscono dalla figura di Poli, assai probabili nell'americanista Pavese - è contenuto in poco più di centocinquanta pagine: a testimonianza della capacità dello scrittore di rendere un'immagine con poche, intense pennellate che vanno a creare un ritmo lento eppure implacabile nell'afferrare il lettore che sappia farsi coinvolgere.
 
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catcarlo | 3 altre recensioni | Jan 22, 2015 |
Una raccolta di poesie stupende, una migliore dell'altra. Uno specchio nell'anima di un uomo pieno di tormenti e nostalgie

Letto per curiosità, senza aver approfondito la poetica di Cesare Pavese, ho trovato queste poesie (una decina circa) molto belle, profonde, evocative e struggenti. Un paio di componimenti sono in inglese, ma la maggior parte delle poesie sono in italiano. Si legge un dolore profondo e totale e una nostalgia accorata e intensa in questi componimenti, si legge un uomo, un uomo che esprime per l'ennesima e ultima volta sé stesso. Leggere queste liriche ha causato in me una sensazione ambigua, una coltellata e una carezza insieme...
 
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Aimapotis | 1 altra recensione | Jun 14, 2014 |
"Ancora oggi mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino. Devo a questo se sono ancora libero, se sono quassù. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell'altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo?.... L'esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto che essere vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte, dopo aver ascoltato l'inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato."
 
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Ginny_1807 | 2 altre recensioni | Aug 23, 2013 |
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa. Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita. Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
 
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Ginny_1807 | 4 altre recensioni | Aug 23, 2013 |