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Antonia Arslan

Autore di La masseria delle allodole

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Fonte dell'immagine: Jerry Bauer

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Informazioni generali

Data di nascita
1938
Sesso
female
Nazionalità
Italy

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Quando Antonia Arslan presentò in libreria “La strada di Smirne” (Rizzoli, 2009) erano già trascorsi cinque anni dalla pubblicazione de “La masseria delle allodole”, successo tanto grande quanto inaspettato per l’autrice, già docente di letteratura italiana all’Università di Padova. In quel lustro, dal libro divenuto icona letteraria del Metz Yegern, il “Grande male”, lo sterminio da parte del fanatismo ottomano di un milione e mezzo di armeni, era già stato tratto un film dei fratelli Taviani, stampate 14 traduzioni (ora anche di più) ed oltre venti edizioni in più di 200 mila copie.

Questo secondo libro che l’autrice dedica a quella che, in fondo, è la storia della sua famiglia, è il prosieguo di quanto ci è stato narrato ne “La masseria delle allodole”. Va da sé quindi che, per comprenderne appieno il senso e la cronologia delle vicende raccontate, ritengo fondamentale, se non indispensabile, aver già letto il primo, nel quale ci era raccontato delle stragi e delle deportazioni degli Armeni al tramonto dell’Impero Ottomano. Ciò è certamente di aiuto anche per meglio orientarsi tra i numerosi personaggi, dai nomi tutt’altro che facili per noi, le cui vicende si intrecciano. Ci corre in aiuto l’autrice che mette a disposizione l’albero genealogico familiare all'inizio del volume.

Questo secondo capitolo è ispirato al grande incendio di Smirne del settembre 1922, una sorta di déjà vu della violenta rappresaglia turca contro le minoranze che in quel luogo avevano trovato approdo sicuro sotto l’ala greca e lo sguardo distratto dei francesi, trasformando la ex città ottomana in un’improbabile quanto vitale comunità mercantile, crogiuolo di etnie, culture, tradizioni, profumi e sapori capaci di unire turchi, greci, armeni, levantini ed ebrei. In quel rogo bruceranno non solo le abitazioni, ma gli abitanti armeni e greci della città, i sogni espansionistici della Grecia, l’immagine da cartolina dell’Europa ottocentesca e cosmopolita. Si trasformeranno in cenere i sogni di una rinascita, le fotografie (unico ricordo degli scampati ai massacri del 1915), la speranza di ritorno nella perduta terra natia.

L’arrivo a Smirne dell’esercito turco per cacciare i soldati greci, guidato da Mustafa Kemal Atatürk, universalmente e storicamente riconosciuto come il padre della moderna Turchia, è l’epilogo delle vicende che la Arslan ci racconta nelle sei parti in cui si articola il libro e nelle quali si alternano il ricordo di Aleppo quale approdo dei sopravvissuti, il lungo viaggio in mare degli scampati, l’approdo in Veneto di chi è fuggito, le storie di chi è rimasto e anche quelle di chi è ritornato tra le montagne dell’infanzia cullando una speranza vana.

In tutto il libro, sin dalle prime pagine, si percepisce l’ansia dell’attesa. La sensazione di una tragedia che sta per incombere è costante. A tratti ci si illude, partecipi con i protagonisti, che le cose possano cambiare. Si spera in un improvviso, quanto improbabile colpo di coda del fato. Trovo davvero azzeccato il paragone che, sulle pagine di “la Repubblica” fece Guido Rampoldi accostando l’atmosfera del libro a quella vissuta dagli abitanti di Pompei prima della grande eruzione. La tensione è palpabile e, nello sfogliare le pagine, l’aria si riscalda come il vento che di lì a poco divorerà il quartiere armeno di Smirne e con esso i suoi abitanti.

Sebbene meno incisivo e emotivamente coinvolgente del precedente, in questo seguito, che riparte dal 1916, ci si sente però già in una sorta di piacevole intimità con i grandi protagonisti delle vicende raccontate, con gli artefici della salvezza dei sopravvissuti della famiglia Arslanian, la cui italianizzazione del nome in Arslan avvenne poco dopo ad opera del nonno dell’autrice. Essi sono la lamentatrice greca Ismene, il prete ortodosso Isacco e il mendicante tuttofare turco Nazim che, dopo aver salvato i bambini dell’orfanotrofio che avevano accompagnato da Aleppo a Smirne, dovranno affrontare il crudele scherzo di quello stesso destino che, qualche anno prima, li aveva sottratti alla furia dei turchi e delle tribù curde, cui i primi avevano lasciato campo libero a saccheggi, stupri, rapimenti sulle colonne di donne e bambini deportati dai loro villaggi sino al deserto e lasciati morire di fame, stenti e umiliazioni.

“Ora voi sprofondate nel fuoco di Smirne, Ismene, dolce sorella, Isacco, fratello, e con voi sprofondi Nazim l'astuto, il mendicante dai molti raggiri. Sprofondate nel gorgo, travolti dal Male, oscuro e occhiuto compagno delle menti degli uomini. Le vostre anime leggere sospinte da un vento che non dà tregua volteggiano, come farfalle perdute scendendo giù nell'abisso”. (“La strada di Smirne”)

Antonia Arslan sente la necessità di raccontare un dolore che, in fondo, è anche personale e per questo ben percepibile nel modo di scrivere su persone e luoghi, penetrando nel loro cuore e nei loro pensieri. Una sorta di profondo rispetto di quel nonno che ha voluto raccontarle cosa era accaduto al suo popolo e per omaggiare la diaspora familiare di parenti, zii, cugini (tantissimi) sparpagliati per il mondo: da Padova al Libano, dalla Siria al Brasile e agli Stati Uniti. Un riscatto per quel disperato e fallito tentativo di ritornare a “casa”, iniziato poco prima del rogo di Smirne proprio da Padova. Un sogno infranto: ritornare tra i monti dell’Anatolia dove approdò l’Arca dopo il diluvio, nella masseria delle allodole.

Nella città veneta si dipana invece la storia di chi, grazie agli eroi che ho poco innanzi citato, riuscì a sopravvivere allo sterminio e dopo un anno passato in una buia cantina di Aleppo ed un avventuroso viaggio in nave, approdò in Italia, dallo zio Yerwant (il nonno della scrittrice). Un ricongiungimento familiare dove Khayel (padre della Arslan) e il fratello Wart incontrano le cugine dell’oriente lontano. Due di loro, Nevart e Arrusiag, migreranno poi in America, mentre nella piana patavina resteranno Nubar (il maschietto sopravvissuto al sistematico e brutale annientamento degli uomini armeni perché vestito da bambina dalla coraggiosa mamma) e la piccola Henriette, zia dell’autrice. Zia prediletta, che le insegnò il francese con i dischi di Edith Piaf, ma tenne sempre e solo per lei il ricordo lontano di una famiglia e di una patria perduti per sempre.

"Mai gli armeni sembrano stanchi dei racconti di morte e sopravvivenza, mai ne hanno abbastanza del ripetuto orrore: è come se la pena condivisa apparisse più sopportabile quando diventa un racconto, il mito che si costruisce di un popolo martire, che nell'epopea dei suoi morti trova riscatto”. (“La strada di Smirne”)

Il genocidio armeno, una vera pulizia etnica mai riconosciuta dalla Turchia, rappresenta senza alcun dubbio una delle pagine più aberranti della storia dell’umanità. Una ferita, le cui cicatrici la Arslan mostra al mondo quale severo monito per il futuro. Post mortem, a detta di molti, che considerano quanto accadde in Anatolia come una sorta di prova generale per quello che i nazisti operarono poi contro gli ebrei in Europa. Tanto che in più di un’occasione qualcuno ha voluto accostare “La masseria delle allodole” e “La strada di Smirne” rispettivamente a “La tregua” e “Se questo è un uomo” di Primo Levi perché, come ha scritto su “Avvenire” Lorenzo Fazzini, entrambi i seguiti narrativi riguardano capolavori che “hanno aperto gli occhi su ‘buchi neri’ della storia”.

Una storia che per certi versi qualcuno nega o interpreta attraverso diversi punti di vista, nonostante numerosi intellettuali turchi, sfidando le severe leggi del loro paese, hanno chiesto al proprio governo di ammettere le responsabilità nel genocidio ed hanno formulato una istanza di perdono ai fratelli ed alle sorelle armene. C'è chi, tra le pieghe della storia, motiva la sistematica eliminazione degli Armeni come il risultato del timore che questi ultimi fungessero da testa d’ariete alla Russia, così come c’è chi ritiene che il genocidio sia oggi usato come spauracchio politico per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, che tra l’altro ha ripetutamente ed inutilmente chiesto al governo turco di riconoscere i fatti del 1915. Difficile da pensare in quest’epoca di chiara ispirazione integralista e assai poco pluralista. Certo è che non si commette reato a riflettere sul fatto che, come ha detto in un’intervista la Arslan, “la Turchia è un paese di 73 milioni di individui con un alto tasso di natalità. Diventerebbe il Paese più grande d’Europa, più della Germania”.

Chi mi legge avrà certamente compreso che questo “La strada di Smirne”, così come il libro che lo ha preceduto, non è un semplice romanzo, ma ha la capacità di far sorgere in noi dubbi e domande. Di obbligarci (e non è male), in quanto esseri umani, ad un serio esame di coscienza. Resta indiscutibile il fatto, e questo libro lo conferma, che Antonia Arslan è una delle voci più importanti degli Armeni della diaspora, oltre che rappresentante e custode della memoria della piccola comunità armena italiana.
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½
 
Segnalato
Sagitta61 | Oct 4, 2023 |
Ci sono pagine di storia che paiono talmente disumane che l’uomo stesso, sbagliando, cerca di seppellirle, di cancellarle dalla vista e dalla memoria. Occhio non vede, cuore non duole. Ma l’umanità stessa, quando i ricordi affiorano, quando qualcuno rammenta ciò che è stato, perché magari lo ha vissuto o sentito raccontare, si trova sempre a fare i conti con se stessa. Con il peso profondo della colpa per chi, in nome di una etnia o di una religione, ha violato la storia. Con il rimorso di aver distolto lo sguardo per coloro che, nel folle gioco della politica o dei propri meri interessi, hanno finto di non sapere.

Nel giorno della memoria ci affanniamo affinché, scomparendo gli ultimi testimoni diretti, non si perda la consapevolezza collettiva del più grande crimine perpetuato dall’umanità: l’Olocausto. Lo facciamo perché ciò non abbia e ripetersi, inconsapevoli talvolta che lo sterminio sistematico ed organizzato di un popolo aveva già avuto un prologo, di eguale ferocia e crudeltà, di immense dimensioni e molti anni prima, nel genocidio degli armeni, nel 1915, tra i monti della bella Anatolia ed i deserti aridi ed assolati dell’Impero Ottomano.

“Nella grande piana ai piedi dei primi contrafforti del Tauro, confluiscono stremati i resti delle carovane. Di quanti, di quante biancheggiano ormai le ossa sui sentieri, quanti gonfi cadaveri sono trasportati dall’Eufrate; quanti bambini, quante ragazze sono scomparsi. Il gruppetto dei superstiti della piccola città si attenda penosamente sotto due alberi scarni, mentre un falco alto gira nel cielo limpidissimo”.

“La masseria delle allodole” non è solo il racconto di un fatto tragico, non è anche la testimonianza vivida di uno sterminio e della cancellazione di un popolo, della sua cultura, della sua lingua, della sua stessa esistenza nel libro del creato. Il libro è il risveglio della coscienza sopita di tutti noi, è uno sguardo nell’abisso che ci avverte che superata una data soglia, sarà l’abisso che scruterà dentro di noi. Antonia Arslan è una professoressa italiana di origini armene. In questo libro ella scrive del genocidio del suo popolo, dando voce alla sua identità armena. Lo fa con uno stile tutto suo, raccontando la storia della sua famiglia, a sua volta raccontatele dal nonno Yerwant quando era ancora una bambina.

"Sono loro, i miei padri e madri, che emergendo da un pozzo profondo mi hanno narrato la loro storia e io mi sono seduta, un giorno di maggio, ad ascoltare e a scrivere. Ed è stato come intessere un tappeto. Zio Sempad è solo una leggenda per noi: ma una leggenda su cui abbiamo tutti pianto. Era l'unico fratello del nonno, il minore. Amava la sua tranquilla città, la sua provincia sonnolenta, le chiacchiere al caffè con gli amici."

C’è un filo che unisce, in questo romanzo verità, l’Italia con quella terra ai piedi del monte Ararat di cui la Arslan ci parla. Nel nostro paese, infatti, vive uno dei componenti della grande famiglia degli Arslanian, partito da una piccola cittadina dell’Anatolia in cerca di fortuna, a soli tredici anni. E la dea bendata lo assiste perché egli studia, si laurea brillantemente, si sposa con altrettanto successo. Dopo tantissimi anni Yerwant, ora un chirurgo molto stimato, decide di tornare alla terra natia che gli è rimasta nel cuore.

“Questa non è uva vera, è pallida, sa di poco; nel mio paese lontano fiorivano i grappoli immensi, e latte e miele avevano il sapore dell’arca d’Oriente…”

Fervono i preparativi per il viaggio da Padova all’antica Costantinopoli e poi su, sino ai monti e le piane anatoliche, per rivedere e riabbracciare fratelli, sorelle, nipoti conosciuti solo attraverso le lettere. Ad attenderlo c’è il caro fratello Sempad, il farmacista, che vuole per questo rientro un cerimoniale fastoso, perché è bene chiarire che gli Arslanian, come molti degli armeni presenti nell’impero ottomano in quell’epoca, sono persone agiate, colte, ben inserite in un tessuto sociale ed economico. Per il fratello che torna egli pensa a restaurare l’antica masseria di famiglia, la Masseria delle Allodole appunto. Fa giungere al paese arredi di stile, vetrate riccamente decorate e fa scavare persino una profondo avvallamento, tra i prati, poco distante dalla masseria, perché il suo sogno, riabbracciando il fratello, e di giocare con lui nel campo da tennis che collocherà in quella fossa.

“La delusione è una promessa infranta. Un viaggio mai intrapreso, un amore mancato, il futuro negato di un popolo ‘così docilmente sciocco’”.

Purtroppo è il 1915: l’Italia entra in guerra, Yerwant non potrà più partire e ricevere notizie dal fratello e dei nipoti diventerà impossibile. I loro corpi straziati da un sadico gioco di morte giacciono in quella fossa scavata per il campo da tennis. Il genocidio armeno, il Metz Yeghern, ha avuto inizio. Ogni uomo, ogni bambino, ogni neonato maschio sarà trucidato, molti torturati o barbaramente assassinati. Per le donne, risparmiate alla morte, inizierà la penosa deportazione verso Aleppo e il deserto ove le attende la morte, non prima di aver patito violenze, sevizie, incursioni curde e cercato di sopravvivere rovistando tra lo sterco in cerca di semi. Le polverose strade dell’Anatolia che fanno rotta verso il deserto si riempiono di corpi che cedono agli stenti patiti e si ammucchiano come colline di morte. In tutto ciò Antonia Arslan ci mostra una flebile luce di speranza verso la salvezza per chi, della sua famiglia, ancora non è morto, verso quello zio Yerwant rimasto in Italia senza poter far nulla per aiutare i propri cari.

“È uno stupore ovattato, denso. Cento gridi di angoscia vengono sigillati su labbra ridenti, cento pensieri di morte si levano, fluttuano incerti, si uniscono a intessere una buia danza. I bambini si riempiono le tasche di dolci, e si nascondono. L'odore acido della paura si diffonde come un miasma”.

La narrazione inizia con un lessico familiare che s’addentra in feste popolari e religiose, in tradizioni secolari ed in una selva genealogica linguistica di nomi che ci pare impossibile memorizzare, tanto è la loro estraneità alla nostra anagrafe abituale: Sempad, Shushanig, Yerwant, Hamparzum, Aznir, Veron. Un quadro che obbliga chi legge a rallentare il ritmo, talvolta a perdersi tra i rivoli dei ricordi, tra i visi, i gesti, i rituali. Ciò che ci pare come un sovraffollamento di immagini e di nomi è però necessario e lo si comprende procedendo nel racconto. L’autrice ha assolutamente bisogno di farci immergere in una cultura, in un ambiente familiare come tanti per sorprenderci poi, nella seconda parte del racconto, con l’orrore, la repulsione, la cruda e lacerante realtà di un omicidio di massa studiato a tavolino, senza pietà alcuna, sino all’epilogo di una delle pagine più tragiche del Novecento. Solo in tal modo ella riesce a darci misura di ciò che un genocidio comporta: la scomparsa di una cultura nella sua complessità. Alternando il virtuosismo narrativo alla forza della verità storica ci fa comprendere l’enormità di quegli eventi insabbiati da un sincopato negazionismo turco sovente tollerato dagli interessi occidentali.

Dal libro anche un film dei fratelli Taviani uscito in sala nel 2007. L’Italia è tra le 29 nazioni che hanno formalmente riconosciuto il genocidio degli armeni, lo sterminio di un milione e mezzo di persone, pianificato tra il 1915 e 1917 sotto l’Impero Ottomano ai danni della minoranza cristiana. Un fatto che ha profondamente segnato, e lo mostra il più recente conflitto nel Nagorno-Karabakh, le relazioni tra le comunità turche ed armene.
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Segnalato
Sagitta61 | 6 altre recensioni | May 17, 2023 |
 
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ScarpaOderzo | 6 altre recensioni | Apr 13, 2020 |
Quanti ricordi, per la bambina di allora... C'era la mamma con il suo spirito indomito, fiera e senza paura, come quando scampò a una pattuglia tedesca con il trucco del maialino... E c'era Bob l'inglese, il soldato atterrato col paracadute nel giardino in una notte senza luna, che tenevano nascosto nel granaio per sottrarlo ai controlli delle squadracce fasciste... Sì, molti ricordi di quella lunga notte restano indelebili nella memoria della bambina, insieme a nostalgie e rimpianti di oggi. Perché anche dopo il peggiore degli incubi, alla fine le luci si riaccendono sempre.… (altro)
 
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BiblioStefanoGambari | 1 altra recensione | Sep 12, 2017 |

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