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Opera teatrale drammaturgica del 1909 di August Strindberg, scrittore, drammaturgo e bibliotecario nato a Stoccolma nel 1849. Molto peso sulla sua psicologia ebbe la diseguaglianza sociale dei genitori. La madre era una ca meriera, sposatasi tardi con un piccolo borghese. Nel 1867 si iscrisse all'università di Uppsala, frequentando irregolarmente i corsi di filologia e medicina. In seguito trovò occupazione come maestro elementare, precettore, telegrafista in un'isola remota del nord. La vita di Strindberg fu tumultuosa, tessuta di esperienze complesse e scelte radicali e contraddittorie. Fu bibliotecario reale nella Biblioteca reale (Kungliga Biblioteket) fino al 1882
 
Segnalato
derobbio | Oct 19, 2008 |
Strindberg, August - Memoriale di un folle = Le plaidoyer d'un fou. - Dal quarto volume dell'autobiografia di August Strindberg scritta direttamente in francese tra il settembre 1887 e il marzo 1888, le citazioni selezionate narrano l'incontro dello scrittore con la baronessa Sirsi von Essen, moglie del barone Wrangel. La baronessa incinta dello scrittore lasciò il marito e ne seguì un rapporto travagliato che sconvolse la vita già tormentosa dello scrittore-drammaturgo-bibliotecario svedese, unione che sfociò in un clamoroso divorzio dopo che coppia ebbe altri tre figli. Le manie di persecuzione nella duplice figura del narratore dove l'io narrante e l'io autobiografico si appiattiscono in un'unica figura colta da frequenti e ossessivi accessi di gelosia sessuale si susseguono nella biblioteca Reale di Stoccolma, dove il bibliotecario si rifugia quasi a trovare tregua. Difficilmente avvicinabile, tormentato da indicibili angosce, la sua irriducibile possessività lo porterà a ben tre divorzi catastrofici, di cui quello con Sirsi sarà il più devastante. Memoriale di un folle, pur scritto successivamente, si riferisce al periodo in cui Strindberg ricopre il posto di amanuense alla Biblioteca Reale, il 1874, periodo in cui decide di diventare sinologo. Nel 1875 incontra Sirsi e la sposerà nel 1877. Nel 1882, dopo otto anni, lascia il posto alla biblioteca e si dedica alle indagini storiche sul popolo svedese, scriverà poesie, e numerosi drammi teatrali, facendosi ulteriormente sconvolgere dagli scritti di Kierkegaard che gli riapre i suoi drammi interiori di tipo religioso. "L'indomani della nostra partenza, tutta la capitale è informata del rapimento della baronessa da parte d'un bibliotecario della Biblioteca Reale. [...] Dalla mattina del mio ritorno, per far constatare il mio alibi, vado con un pretesto a salutare il capo bibliotecario, trattenuto a casa da una leggera indisposizione. (pag. 135) [...] "L'indomani, quando mi svegliai, era una di quelle scure e tiepide mattine d'agosto. Abbattuto e di mal umore, me n'andai alla Biblioteca, fin alle otto. Ne avevo la chiave e mi fu possibile passare tre ore da solo, prima dell'apertura. Girai per i corridoi tra la doppia fila dei libri, avvolto in quella solitudine deliziosa perché non era più isolamento. Un avvicinamento intimo si stabiliva tra gli spiriti migliori di tutte le età e il mio pensiero."(pag. 57) "Era il 13 Marzo 1875, a Stoccolma. Mi rivedo ancora nella Biblioteca Reale, che occupa un'ala intera del Palazzo Reale, nella vasta sala dalle pareti di faggio iscurito dal tempo, come la schiuma di mare d'una pipa bene ingrommata. L'immenso salone, ornato di cartigli rococò, ghirlande, catene e stemmi, circondato all'altezza del primo piano da un soppalco a colonnine toscane, mi si spalanca sotto i piedi come un abisso, immagine, coi suoi centomila volumi, di un gigantesco cervello in cui sono allineate le idee delle generazioni scomparse. Le due ali principali della sala, fornita in tutta la lunghezza di scaffali alti tre metri, sono separate da un corridoio che la percorre per intero. Il sole primaverile dardeggia attraverso i finestroni a crociera, lampeggiando sulle rilegature del Rinascimento in pergamena bianca e oro, su quelle in marocchino nero con fregi d'argento del XVIII secolo, quelle in vitello pieno a tagli rossi del XVIII secolo, o quelle in cuoio verde di moda sotto l'Impero, e sui cartoni a buon mercato attuali. Qui i teologi stanno accanto agli apostoli della magia, i filosofi ai naturalisti; e i poeti convivono pacifici con gli storici. E'un deposito geologico senza fondo, in cui, come in un pudding,si sono sovrapposti gli strati successivi segnando le tappe sempre nuove della stupidità o del genio umano. Mi ci rivedo ancora. Là sul soppalco circolare classificavano una collezione di vecchi libri, recente donazione d'un rivenditore di libri famoso e prudente, visto che s'era preoccupato d'assicurasi l'immortalità scrivendo sulla contraccoperta delle rilegature il suo ex libris dal motto:"Speravit infestis". Superstizioso come un ateo, non finivo mai d'essere impressionato dal quel motto che da una settimana mi ricompariva davanti agli occhi, ogni qual volta mi capitasse d'aprire un volume. Quel brav'uomo continuava a sperare fin nell'interno dei suoi libri; e per lui fu una fortuna..... Io invece avevo perso ogni speranza. La mia tragedia in cinque atti e sei quadri, con tre cambiamenti a vista, non la potevo far rappresentare. Quanto alla promozione come bibliotecario, per ottenerla avrei dovuto scavalcare altri sette addetti in soprannumero, e tutti in perfetta salute, di cui quattro godevano di rendite. Con venti franchi di stipendio al mese, una tragedia in cinque atti in fondo a un cassetto in soffitta, a ventotto anni suonati non si può essere che troppo inclini al pessimismo contemporaneo, a quel rinnovato scetticismo, così utile ai falliti che vi trovano una compensazione ai pasti saltati e sostituiscono il cappotto impegnato prima che l'inverno sia finito, con impegnatissime elucubrazioni. Membro d'un circolo di bohèmiens intellettuali ricalcano su un precedente circolo artistico, collaboratore di giornali seri e di riviste pompose che pagavano male, azionista d'una Società anonima costituita per tradurre la Filosofia dell'Inconscio di Edoardo Hartmann, iscritto ad una confraternita segreta di amore libero a pagamento, insignito del titolo senza valore di segretario del Re, autore di due atti rappresentati al Teatro Reale, arrivano a malapena a trovare di che nutrirmi per tirare avanti quale miserevole esistenza." (pagg. 27-28) [...] "La polvere dei libri spostati mi sta soffocando, apro la finestra sul Cortile dei Leoni, per respirare un po' d'aria fresca e aver sotto gli occhi un angolo di paesaggio." (pag. 29) [...] "Avevo dimenticato i libri: volgevo loro la schiena, il capo fuori della finestra, e m'immergevo con tutti i cinque sensi in questo bagno di sensazioni, quando la guardia che montava cominciò a sfilare in parata, al suono della marcia del Faust. Musica, bandiere, cielo blu, fiori, tutto m'inebriava, tanto che non m'accorsi dell'usciere che mi portava la posta." (pagg. 30) (Armando Curcio Editore, 1978?) [AdR]
 
Segnalato
derobbio | 2 altre recensioni | Oct 19, 2008 |
Indice - Sommario

Premessa

Introduzione

Cronologia

IL FIGLIO DELLA SERVA (traduzione di Giovanni Guarnieri)

ETÀ DI FERMENTI (traduzione di Stefania Renzetti)

L'ARRINGA DI UN PAZZO (traduzione di Giuseppe Mongelli)

INFERNO (traduzione di Luciano Codignola)

GIACOBBE COMBATTE (traduzione di A. G. Calabrese)

SOLO (traduzione di Anna Maria Segala)

DIARIO OCCULTO (traduzione di Maria Saquella)

Note ai testi

Bibliografia



Prefazione / Introduzione

Dalla "Premessa" di Ludovica Kock

PREMESSA
"Uno scrittore non è che il cronista di quanto ha vissuto" "Si arriva a conoscere una sola vita, la propria." La letteratura del futuro consisterà in un piano sistematico di studi sull'uomo: in un immenso archivio dove ogni oscuro cittadino verrà a depositare, nel corso della vita, diari e memorie a uso di una scienza ancora da fondare.
Curiosamente, il più ostinato, il più rigoroso autobiografo, e teorico dell'autobiografia, della letteratura di ogni tempo - più inquieto di Sant'Agostino, più ossessivo di Rousseau - è anche il meno narcisista, il più disinteressato di tutti. Non si serve del se stesso narrato per costruirsi una personalità e un destino. Al contrario, l'uomo e la sua storia non hanno uso migliore, scopo diverso che fare la materia di un libro. E giusto e necessario che ricadano nella dispersione da cui sono emersi, appena il libro abbia, anche provvisoriamente, preso forma. Lo stesso Strindberg che è stato letto per un secolo come instancabile e un po' ripugnante confessore dei propri segreti, in ogni pagina delle molte migliaia pubblicate e non pubblicate in vita - tanto che una lunga moda ha potuto imporre all'attore protagonista del suo teatro una maschera di gomma con la sua faccia - è in realtà il più feroce, il più impersonale sperimentatore che sia mai esistito. Lo scrittore, dichiara, è un parassita e un vampiro, non meno di sé che di quanti vivano a lui vicini o lontani. La letteratura è una pratica profondamente cinica, il più immorale dei mestieri. Non crede in un Grande Disegno degli dèi per la specie umana: ma neppure nelle ragioni, più o meno oscure, della storia collettiva e privata. L'esperienza resta opaca e cieca finché non viene sfruttata da un sistema universale di invenzione, che forza memoria, immaginazione e percezione in giochi attrattivi e combinatori: apparentemente liberi, e infinitamente nuovi. In quella libertà, in quella novità sta la sola giustizia che l'esperienza può fare a se stessa. È la vendetta del soggetto, che fa delle sue ignorate ragioni una macchina senza tempo di pensiero, paurosamente contagiosa e espansiva.
Tuttavia, il ciclo dei racconti esplicitamente autobiografici, che il lettore italiano trova qui, per idea e volontà di Luciano De Maria, ordinati per la prima volta - e in traduzioni tutte per la prima volta condotte sull'edizione critica, o sui manoscritti originali -, ha nell'opera di Strindberg un'importanza e un carattere a parte. "Il figlio della serva", "L'arringa di un pazzo", "Inferno", "Solo", il "Diario occulto" non costituiscono solo, riuniti, un programma generale di invenzione, un itinerario di scrittura esemplare: ne sono stati raccolti e collegati, dallo scrittore stesso, sulla base di una continuità tematica scoperta, magari, solo alla fine. Scritti in un arco di vent'anni, da quelli della prima maturità agli ultimi di una vita non lunghissima; volutamente e profondamente diversi fra loro per registri, generi, tecniche sempre nuovi - tanto che proprio al montaggio per buchi e per salti sono affidati molti degli effetti più interessanti di questo sbalorditivo ciclo -, i libri dell'autobiografia sono, invece, progettati fin dall'inizio da Strindberg come una serie coerente e, addirittura, come un "monumento". Una serie, è naturale, frammentaria e temerariamente aperta; un monumento incrinato, dai piedi d'argilla. Noi che la serie arriviamo oggi a leggerla, resistiamo difficilmente all'attrazione, appunto, di quest'ossimoro: alla fragilità e alla mobilità interna della grande macchina, al vento che soffia pericolosamente dentro alle crepe del "monumento".

Dall'Introduzione di Ludovica Kock

L'impossibile, e subito. E poi così sicuro che sapremmo prenderlo per il verso giusto al primo incontro, il più impaziente, il più ambizioso temperamento di scrittore - "il fuoco più grande, se non la mente più acuta" - che abbia conosciuto l'Europa moderna, se non potessimo contare su certe immagini indimenticabili che ci trasmette lui stesso di sé, appunto in questi racconti autobiografici? Lo scolaro che, appena si accosta alla fisica, mette sottosopra la casa per un'impresa mai riuscita a nessuno, la costruzione del "perpetuum mobile". Il ragazzino che pretende di imparare a suonare il violino in un'ora saltando tutti gli esercizi e le scale, e senza conoscere le note trascrive il "Flauto Magico". L'adolescente che decide di "prendere la religione d'assalto", per diventare il più rigoroso, il più redento di tutti i Figli di Dio. Il ventenne che esige di debuttare da un giorno all'altro nel principale teatro di Stoccolma, e nella parte protagonista dei "Masnadieri". Lo studente che durante un triste pomeriggio di pioggia nell'ostile e grigia Uppsala prende in prestito i colori e le tele di un amico e "suscita per magia dal nulla un prato e dei cespugli verdi", restando poi per tutta la vita un pittore senza tecnica e senza pennelli. Il drammaturgo già famoso che abbandona all'improvviso la letteratura per scrivere solo di scienze naturali in tedesco e in francese, allo scopo di risolvere una volta per tutte, in pochi mesi, "il mistero dell'universo". Il chimico dilettante che, chiuso nella sua squallida stanza di Parigi, con le mani sanguinanti e bruciate tenta e ritenta il "magnum opus" degli alchimisti, la sintesi dell'oro, servendosi di due cucchiai e di un fornellino da niente...
Sono storie e figure come queste che portano di colpo alla luce certe costanze assai illuminanti, nell'attacco di Strindberg sia all'esistenza che alla letteratura. Una grandiosa spinta centrifuga verso i limiti estremi della conoscenza e al di là di quei limiti, aperta direttamente sul buio e sull'ignoto. Un'invenzione fondamentalmente reattiva e rapidissima, governata da violente attrazioni e violenti disgusti: quindi sempre casuale, provvisoria, periferica. E soprattutto una gigantesca insofferenza ai tempi condivisi del mondo: così radicale da capovolgersi in forza, diritto e solitaria ragione.
Di Johan, il sé ragazzo dell'autobiografia giovanile, Strindberg narra l'uscita dalla scuola nel mondo senz'altro principio personale che "la spinta del dubbio e l'intolleranza all'oppressione". Una sorta di violenta claustrofobia intellettuale dirige certamente anche il piglio inconfondibile dello Strindberg scrittore: l'impetuosa, temeraria apertura alle idee più diverse, ai temi più nuovi appena spuntati all'orizzonte; l'impazienza dei limiti, delle regole, delle forme, dei ritmi di apprendimento; un'attenzione vibrante, ma irrequieta e aggressiva ai fatti del mondo.
Curioso, appassionato, incostante, Strindberg tenta e forza dall'interno, uno dopo l'altro, tutti i generi letterari dell'Ottocento: la tragedia, il romanzo, la novella, il saggio, l'articolo di giornale, la lirica, la poesia narrativa. Assai più come uno scassinatore che come l'anatomista che si propone di essere, mette in dubbio, di ognuno, la tenuta e gli obiettivi: rendendoli una volta per tutte inservibili agli scrittori che verranno. Brucia le ideologie contemporanee più avanzate, adottandole d'impulso e subito spingendole al paradosso e rovesciandole. Consuma i grandi temi dell'Ottocento esercitandosi a leggere in tutti "qualcosa d'altro": eccessivo, o marginale, o troppo semplificato e provocatorio. Non è tanto un programma teorico, il suo, quanto, appunto, una reazione immediata d'impazienza: fastidio delle scuole, noia e fatica del pensiero, disgusto dei sistemi. Il risultato è, certo, un "continuo crescere e ringiovanire" simile a quello che Strindberg dichiara di ammirare nell'ultimo Goethe: "l'essere sempre il più moderno, sempre all'avanguardia e in anticipo sul suo tempo". Ma anche un vertiginoso svuotamento degli strumenti e dei temi, una contrazione improvvisa del punto di vista. E una crisi di agorafobia, che con la necessità ritmica del respiro segue ogni espansione claustrofobica.
Spinta agli estremi, usata come tecnica e metodo, l'insofferenza cosmica di Strindberg serve ben presto a sviluppare il suo nero mito letterario. Una maschera di eterno rivoltoso, di "enfant terrible" della cultura europea, di odiatore professionista di "donne, papisti, teosofi, gesuiti" gli è rimasta ostinatamente attaccata, ben oltre l'uso e la morte. Ma, come tutte le maschere, anche questa semplifica, copre e trae in inganno. Accanto alle esplosioni delle forme e dei temi, dietro le vistose intemperanze di Strindberg, persiste infatti anche il tratto temperamentale opposto, e almeno altrettanto illuminante: centripeto, implosivo, tenacemente borghese. E un'aspirazione mai estinta alla normalità e all'equilibrio, una nostalgia di regole e d'ordine che, ancora una volta, l'autobiografia aiuta assai bene a identificare. Quante volte, nel "Figlio della serva", non si racconta per esempio delle pene di Johan per un ricamo malfatto in casa sul suo berretto di studente, o per i vestiti troppo corti e ridicoli che è costretto a portare!
Un'acuta sofferenza estetica per il disordine e le storture basta a rendere per esempio inaccettabili, allo Strindberg chimico, le "informi" formule in vigore per l'aria e per l'acqua, e a fargli decidere di sconfessarle. Le stesse ragioni determinano, nell'opera, idiosincrasie ricorrenti e assai riconoscibili. Sono le candele sbieche e le tendine di traverso che portano all'esasperazione l'"Avvocato del Sogno", o le sordide ossessioni domestiche in cui soffoca la "Ragazza della Sonata di spettri"; biancheria sporca da contare, bicchieri da asciugare.
 
Segnalato
Gian_Paolo | May 19, 2006 |
Indice - Sommario

Introduzione

LA SALA ROSSA (traduzione di Maria Pia Muscarielli)

GLI ISOLANI DI HEMSÖ (traduzione e note di Mario Gabrieli)

CIANDALA (traduzione di Andrea Petricca)

IN MARE APERTO (traduzione di Stefania Renzetti)

BANDIERE NERE (traduzione di Maria Cristina Lombardi)

IL CAPRO ESPIATORIO (traduzione di Anna Grazia Calabrese)

Note ai testi

Cronologia

Bibliografia

Dall'introduzione di Ludovica Koch

Grande istrione tradito da una timidezza senza rimedio, esibizionista sempre schermato dalla tela o dalla pagina, da ragazzo attore falliti, Strindberg condivide con gli attori falliti la mania di recitare, nelle sortite ufficiali, appena gli è possibile la parte di Amleto. Pallido, scarmigliato, elegantemente vestito di nero, posa per i suoi molti ritratti a tutto o a mezzo busto con un'espressione profetica e geniale nella faccia seria. A un intervistatore che gli domanda, dopo i successi teatrali di Parigi e di Copenaghen, quale sia il tratto principale del suo carattere, risponde assorto: "Una strana miscela della malinconia più profonda e della più tremenda frivolezza". Eppure nessuno meglio di Strindberg sa, e quando gli conviene dice, che il ruolo fatto su misura per lui è piuttosto quello di Polonio: Polonio, che assecondando col naso in alto le metamorfosi delle nuvole migranti vede prenderne forma con le sue due gobbe un cammello, sgusciarne una donnola e gonfiarsene navigando una maestosa balena.
Non penso solo alla fenomenologia delle nuvole abbozzata nel tardo "Diario occulto", che ne studia la grammatica metà disegnandole e metà narrandole, con l'idea di vedervi il riverbero di paesaggi sconosciuti e imponenti, nascosti oltre la curva dell'orizzonte. Penso invece all'insolito sguardo che devono aver gettato sul mondo quegli occhi troppo chiari, nei tanti ritratti e nelle fotografie dello scrittore: occhi sempre leggermente socchiusi, sempre fissi - verso destra o verso sinistra - oltre l'osservatore, su un punto sconosciuto alle sue spalle. Chi osserva a occhi socchiusi, certo, vede più lontano, ma come in tralice, sotto una luce veloce e radente che appiattisce e uniforma le cose. Uno sguardo filtrato dalle ciglia non si sofferma ad analizzare, ma coglie impressioni d'insieme, effetti generali di movimento e di colore che collegano intorno a un idea fenomeni compositi e diversi, forse contraddittori, forse accostati per caso. Il trasalimento collettivo, per esempio, serpentino o topesco di certe schiene d'impiegati; su una tovaglia bianca sedici mani arrancare repellenti e nervose come granchi sulla spiaggia; due dozzine di maniche di camicia avanzare a cuneo sul campo di fieno come uno stormo di cigni migranti; e i blocchi frastagliati di ghiaccio al largo di un'isola formare archi moreschi, volte romane a botte, torri di manieri medievali in rovina.
Gli occhi socchiusi ignorano le differenze e percepiscono, a sorpresa, le affinità. Scoprono la stessa forma in una noce e in un cervello, in una conchiglia e in un orecchio, in un cuore e in una foglia, filtrano la congestione delle apparenze lasciando affiorare grandi disegni semplici dentro il formicolare di una folla, o nella prospettiva accidentata e affaccendata di una città industriale. Colgono in un'unica occhiata (come fa dalla collina di Mosebacke il giovane protagonista della "Sala Rossa") i fasci di sole che rimbalzano frantumati per i tetti le guglie e i boschi fino al mare lontano, e il vento di maggio che da quel mare torna sbattendo e girando per isole, spiagge e capanne; "ma" in primo piano la serva che toglie l'ovatta dai doppi vetri dell'inverno, e lo stesso vento che irrompe in un turbine a portarsela via, "cosparsa di lustrini, bacche di crespino e petali di rosa canina".
Anche i suoi oli lavorati a pesanti colpi di spatola e forti contrasti di colore - un'impressionante pittura da autodidatta, non però da dilettante, che anticipa molte soluzioni espressioniste - vogliono avere (scrive Strindberg una volta a un amico) almeno un doppio soggetto, uno "essoterico", ed uno, il più importante, "esoterico": un disegno elementare che si coglie solo guardando una seconda volta a distanza o di sbieco. La scoperta, naturalmente, non è solo di Strindberg: costituisce anzi uno dei fondamenti della pittura moderna, sbandierato in cento titoli manifesto, "Impression de soleil levant", "Gelosia", "II grido". Ma la tecnica che fa oscillare la rappresentazione, tenuta rigorosamente in superficie, a ogni momento fra un piano astratto e semplice e un piano fenomenico, complicato e contraddittorio è invece uno dei tratti più nuovi dello Strindberg scrittore. È una tecnica certo maturata soprattutto nella pratica del teatro: dove la fortissima concentrazione indotta dalle luci, dal palcoscenico rialzato e dall'azione limitata a due o tre attori è sempre servita soprattutto a far trasparire, nell'azione complessa, un significato elementare. In termini aristotelici, all'epifania della dianoia nel mythos.
Per sconcertante che possa sembrare, è un fatto che, dietro la maschera di quest'eterno rivoluzionario delle lettere, della scienza e della società, all'ombra dello stendardo di ogni contraddizione sventolato in suo nome per quasi un secolo si nasconde un temperamento amante delle regole e maniacalmente ordinato. Strindberg, lo vediamo appieno soltanto oggi, è fra tante altre cose un esteta con un acuto senso dell'equilibrato e dell'armonico: capace di soffrire fisicamente (come parecchi suoi personaggi, e come Kierkegaard prima di lui) per una candela sbieca o una tendina messa di traverso. E un bohémien sempre assai ben vestito di velluti e di tweed, uno scrittore di libelli infuocati e di satire dissacranti che bada però a tenersi penne, pinze e forbici costantemente allineate sulla lucida scrivania, le risme di carta accuratamente disposte in pile simmetriche. Per un temperamento come il suo, il mondo disperso e discorde che si stende sotto gli occhi di tutti non è solo occasione di indignazione per la volontà e di profonda inquietudine per la ragione: ma un'offesa estetica, un disturbo fisico, una minaccia all'equilibrio della mente, un'intollerabile malattia.
 
Segnalato
Gian_Paolo | May 19, 2006 |
BIBLIOTECA ADELPHI 657
 
Segnalato
Vincenzop. | 2 altre recensioni | Feb 2, 2018 |
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