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Romanzi e racconti: Il(ciclo autobiografico)

di August Strindberg

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Indice - Sommario

Premessa

Introduzione

Cronologia

IL FIGLIO DELLA SERVA (traduzione di Giovanni Guarnieri)

ETÀ DI FERMENTI (traduzione di Stefania Renzetti)

L'ARRINGA DI UN PAZZO (traduzione di Giuseppe Mongelli)

INFERNO (traduzione di Luciano Codignola)

GIACOBBE COMBATTE (traduzione di A. G. Calabrese)

SOLO (traduzione di Anna Maria Segala)

DIARIO OCCULTO (traduzione di Maria Saquella)

Note ai testi

Bibliografia



Prefazione / Introduzione

Dalla "Premessa" di Ludovica Kock

PREMESSA
"Uno scrittore non è che il cronista di quanto ha vissuto" "Si arriva a conoscere una sola vita, la propria." La letteratura del futuro consisterà in un piano sistematico di studi sull'uomo: in un immenso archivio dove ogni oscuro cittadino verrà a depositare, nel corso della vita, diari e memorie a uso di una scienza ancora da fondare.
Curiosamente, il più ostinato, il più rigoroso autobiografo, e teorico dell'autobiografia, della letteratura di ogni tempo - più inquieto di Sant'Agostino, più ossessivo di Rousseau - è anche il meno narcisista, il più disinteressato di tutti. Non si serve del se stesso narrato per costruirsi una personalità e un destino. Al contrario, l'uomo e la sua storia non hanno uso migliore, scopo diverso che fare la materia di un libro. E giusto e necessario che ricadano nella dispersione da cui sono emersi, appena il libro abbia, anche provvisoriamente, preso forma. Lo stesso Strindberg che è stato letto per un secolo come instancabile e un po' ripugnante confessore dei propri segreti, in ogni pagina delle molte migliaia pubblicate e non pubblicate in vita - tanto che una lunga moda ha potuto imporre all'attore protagonista del suo teatro una maschera di gomma con la sua faccia - è in realtà il più feroce, il più impersonale sperimentatore che sia mai esistito. Lo scrittore, dichiara, è un parassita e un vampiro, non meno di sé che di quanti vivano a lui vicini o lontani. La letteratura è una pratica profondamente cinica, il più immorale dei mestieri. Non crede in un Grande Disegno degli dèi per la specie umana: ma neppure nelle ragioni, più o meno oscure, della storia collettiva e privata. L'esperienza resta opaca e cieca finché non viene sfruttata da un sistema universale di invenzione, che forza memoria, immaginazione e percezione in giochi attrattivi e combinatori: apparentemente liberi, e infinitamente nuovi. In quella libertà, in quella novità sta la sola giustizia che l'esperienza può fare a se stessa. È la vendetta del soggetto, che fa delle sue ignorate ragioni una macchina senza tempo di pensiero, paurosamente contagiosa e espansiva.
Tuttavia, il ciclo dei racconti esplicitamente autobiografici, che il lettore italiano trova qui, per idea e volontà di Luciano De Maria, ordinati per la prima volta - e in traduzioni tutte per la prima volta condotte sull'edizione critica, o sui manoscritti originali -, ha nell'opera di Strindberg un'importanza e un carattere a parte. "Il figlio della serva", "L'arringa di un pazzo", "Inferno", "Solo", il "Diario occulto" non costituiscono solo, riuniti, un programma generale di invenzione, un itinerario di scrittura esemplare: ne sono stati raccolti e collegati, dallo scrittore stesso, sulla base di una continuità tematica scoperta, magari, solo alla fine. Scritti in un arco di vent'anni, da quelli della prima maturità agli ultimi di una vita non lunghissima; volutamente e profondamente diversi fra loro per registri, generi, tecniche sempre nuovi - tanto che proprio al montaggio per buchi e per salti sono affidati molti degli effetti più interessanti di questo sbalorditivo ciclo -, i libri dell'autobiografia sono, invece, progettati fin dall'inizio da Strindberg come una serie coerente e, addirittura, come un "monumento". Una serie, è naturale, frammentaria e temerariamente aperta; un monumento incrinato, dai piedi d'argilla. Noi che la serie arriviamo oggi a leggerla, resistiamo difficilmente all'attrazione, appunto, di quest'ossimoro: alla fragilità e alla mobilità interna della grande macchina, al vento che soffia pericolosamente dentro alle crepe del "monumento".

Dall'Introduzione di Ludovica Kock

L'impossibile, e subito. E poi così sicuro che sapremmo prenderlo per il verso giusto al primo incontro, il più impaziente, il più ambizioso temperamento di scrittore - "il fuoco più grande, se non la mente più acuta" - che abbia conosciuto l'Europa moderna, se non potessimo contare su certe immagini indimenticabili che ci trasmette lui stesso di sé, appunto in questi racconti autobiografici? Lo scolaro che, appena si accosta alla fisica, mette sottosopra la casa per un'impresa mai riuscita a nessuno, la costruzione del "perpetuum mobile". Il ragazzino che pretende di imparare a suonare il violino in un'ora saltando tutti gli esercizi e le scale, e senza conoscere le note trascrive il "Flauto Magico". L'adolescente che decide di "prendere la religione d'assalto", per diventare il più rigoroso, il più redento di tutti i Figli di Dio. Il ventenne che esige di debuttare da un giorno all'altro nel principale teatro di Stoccolma, e nella parte protagonista dei "Masnadieri". Lo studente che durante un triste pomeriggio di pioggia nell'ostile e grigia Uppsala prende in prestito i colori e le tele di un amico e "suscita per magia dal nulla un prato e dei cespugli verdi", restando poi per tutta la vita un pittore senza tecnica e senza pennelli. Il drammaturgo già famoso che abbandona all'improvviso la letteratura per scrivere solo di scienze naturali in tedesco e in francese, allo scopo di risolvere una volta per tutte, in pochi mesi, "il mistero dell'universo". Il chimico dilettante che, chiuso nella sua squallida stanza di Parigi, con le mani sanguinanti e bruciate tenta e ritenta il "magnum opus" degli alchimisti, la sintesi dell'oro, servendosi di due cucchiai e di un fornellino da niente...
Sono storie e figure come queste che portano di colpo alla luce certe costanze assai illuminanti, nell'attacco di Strindberg sia all'esistenza che alla letteratura. Una grandiosa spinta centrifuga verso i limiti estremi della conoscenza e al di là di quei limiti, aperta direttamente sul buio e sull'ignoto. Un'invenzione fondamentalmente reattiva e rapidissima, governata da violente attrazioni e violenti disgusti: quindi sempre casuale, provvisoria, periferica. E soprattutto una gigantesca insofferenza ai tempi condivisi del mondo: così radicale da capovolgersi in forza, diritto e solitaria ragione.
Di Johan, il sé ragazzo dell'autobiografia giovanile, Strindberg narra l'uscita dalla scuola nel mondo senz'altro principio personale che "la spinta del dubbio e l'intolleranza all'oppressione". Una sorta di violenta claustrofobia intellettuale dirige certamente anche il piglio inconfondibile dello Strindberg scrittore: l'impetuosa, temeraria apertura alle idee più diverse, ai temi più nuovi appena spuntati all'orizzonte; l'impazienza dei limiti, delle regole, delle forme, dei ritmi di apprendimento; un'attenzione vibrante, ma irrequieta e aggressiva ai fatti del mondo.
Curioso, appassionato, incostante, Strindberg tenta e forza dall'interno, uno dopo l'altro, tutti i generi letterari dell'Ottocento: la tragedia, il romanzo, la novella, il saggio, l'articolo di giornale, la lirica, la poesia narrativa. Assai più come uno scassinatore che come l'anatomista che si propone di essere, mette in dubbio, di ognuno, la tenuta e gli obiettivi: rendendoli una volta per tutte inservibili agli scrittori che verranno. Brucia le ideologie contemporanee più avanzate, adottandole d'impulso e subito spingendole al paradosso e rovesciandole. Consuma i grandi temi dell'Ottocento esercitandosi a leggere in tutti "qualcosa d'altro": eccessivo, o marginale, o troppo semplificato e provocatorio. Non è tanto un programma teorico, il suo, quanto, appunto, una reazione immediata d'impazienza: fastidio delle scuole, noia e fatica del pensiero, disgusto dei sistemi. Il risultato è, certo, un "continuo crescere e ringiovanire" simile a quello che Strindberg dichiara di ammirare nell'ultimo Goethe: "l'essere sempre il più moderno, sempre all'avanguardia e in anticipo sul suo tempo". Ma anche un vertiginoso svuotamento degli strumenti e dei temi, una contrazione improvvisa del punto di vista. E una crisi di agorafobia, che con la necessità ritmica del respiro segue ogni espansione claustrofobica.
Spinta agli estremi, usata come tecnica e metodo, l'insofferenza cosmica di Strindberg serve ben presto a sviluppare il suo nero mito letterario. Una maschera di eterno rivoltoso, di "enfant terrible" della cultura europea, di odiatore professionista di "donne, papisti, teosofi, gesuiti" gli è rimasta ostinatamente attaccata, ben oltre l'uso e la morte. Ma, come tutte le maschere, anche questa semplifica, copre e trae in inganno. Accanto alle esplosioni delle forme e dei temi, dietro le vistose intemperanze di Strindberg, persiste infatti anche il tratto temperamentale opposto, e almeno altrettanto illuminante: centripeto, implosivo, tenacemente borghese. E un'aspirazione mai estinta alla normalità e all'equilibrio, una nostalgia di regole e d'ordine che, ancora una volta, l'autobiografia aiuta assai bene a identificare. Quante volte, nel "Figlio della serva", non si racconta per esempio delle pene di Johan per un ricamo malfatto in casa sul suo berretto di studente, o per i vestiti troppo corti e ridicoli che è costretto a portare!
Un'acuta sofferenza estetica per il disordine e le storture basta a rendere per esempio inaccettabili, allo Strindberg chimico, le "informi" formule in vigore per l'aria e per l'acqua, e a fargli decidere di sconfessarle. Le stesse ragioni determinano, nell'opera, idiosincrasie ricorrenti e assai riconoscibili. Sono le candele sbieche e le tendine di traverso che portano all'esasperazione l'"Avvocato del Sogno", o le sordide ossessioni domestiche in cui soffoca la "Ragazza della Sonata di spettri"; biancheria sporca da contare, bicchieri da asciugare.
  Gian_Paolo | May 19, 2006 |
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