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Paolo Crepet

Autore di Non siamo capaci di ascoltarli

38 opere 208 membri 11 recensioni

Opere di Paolo Crepet

I figli non crescono piu (2005) 21 copie
La gioia di educare (2008) 10 copie
L'autorità perduta (2011) 8 copie
Impara a essere felice (2013) 4 copie

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Recensioni

La perfezione, alla fine, risulta noiosa, ovvia, priva di ironia. Come potrà mai l’intelligenza artificiale ridere di se stessa?
 
Segnalato
Anshin | Jan 7, 2024 |
Dire no è difficile, soprattutto quando ci si deve mettere contro l'arreso senso comune di tanti genitori, quando si intuisce che occorre affrontare battaglie campali, reazioni isteriche, interminabili silenzi. Eppure fa tutto parte del magnifico mestiere di educare».
 
Segnalato
kikka62 | Feb 21, 2020 |
Non siamo capaci di ascoltarli è un saggio poco voluminoso, economico e sottile, ma pieno di considerazioni ed esperienze che ne fanno uno strumento importante per educatori e genitori.

Conosciamo veramente i nostri figli, ci interessiamo di loro o dobbiamo imputare a noi quei difetti che "scarichiamo" sugli adolescenti: immaturità, egoismo e irresponsabilità? Non siamo più capaci di assolvere al compito di genitori, ma amiamo circondarci di educatori. Pensiamo, infatti, che offrire ai nostri figli una scuola elitaria, competitiva e a tempo pieno sia il modo migliore per aiutarli a maturare, a prepararsi alla vita e a crescere.

Così facendo, demandiamo ad altri il compito di insegnare a bambini e ragazzi ciò che noi non siamo più in grado di insegnare e, nel contempo, li deresponsabilizziamo privandoli di quella parte della giornata da dedicare al gioco individuale, all'attività sportiva e alla solitudine, talvolta necessaria ad assicurare una crescita equilibrata.

Educare è difficile: richiede coinvolgimento, stimoli e anche saper dire di no. Meglio parcheggiare bambini e adolescenti pur di non ascoltarli o rispondere alle loro richieste. Parallelamente lo scrittore denuncia carenze e difetti della scuola, che determinano forti ripercussioni sull'iter formativo dei ragazzi. Molto di più potrebbero fare istituzioni pubbliche e amministrazioni locali, ma la famiglia non può delegare tutto all'esterno.

Che cosa significa oggi educare? Siamo ancora depositari di un discorso “forteâ€? da trasmettere ai nostri figli? E siamo in grado di ascoltare? Questo libro è il diario di un testimone che ha provato a raccontare l’arte difficile dell’incontro tra generazioni diverse.

Da anni Paolo Crepet viaggia lungo l’ltalia per incontrare genitori, studenti, insegnanti, educatori. Da questo lavoro di ascolto, sul campo, sono nate le riflessioni contenute nel libro. Si parla dì noia, di creatività, di droga, di felicità, di famiglie per bene, di microcriminalità, del diritto alle emozioni, della solitudine e dell’autismo tecnologico, di politica della città, di una scuola nuova e mite, della risorsa della diversità, della necessità di insegnare a rallentare il nostro tempo. La scuola e la famiglia sono attraversate da una crisi silenziosa: nulla è più come qualche decennio fa eppure sembra difficile per tutti trovare nuova autorevolezza e disponibilità a guardarsi con spirito autocritico. Né manuale, né saggio, questo libro contiene rabbia e indignazione per ciò che non si fa per amare i nostri bambini e i nostri adolescenti. E la convinzione che questa sia la sfida più difficile e affascinante per la nostra comunità.

PREFAZIONE
I rintocchi che scorrono sui prati
da questa fosca guglia
suonan per queste ombre senza amore
che all’amore non servono
WYSTAN H. AUDEN, La verità, vi prego, sull’amore

Se mi chiedessero di scrivere una lettera a una bimba che sta per nascere, lo farei così.

Cosa hai sentito finora del mondo attraverso l’acqua e la pelle tesa della pancia di mamma? Cosa ti hanno detto le tue orecchie imperfette delle nostre paure? Riusiremo a volerti senza pretendere, a guardarti senza riempire il tuo spazio di parole, inviti, divieti? Riusciremo ad accorgerci di te anche dai tuoi silenzi, a rispettare la tua crescita senza gravarla di sensi di colpa e di affanni? Riusciremo a stringerti senza che il nostro contatto sia richiesta spasmodica o ricatto d'affetto?

Vorrei che i tuoi Natali non fossero colmi di doni – segnali a volte sfacciati delle nostre assenze – ma di attenzioni. Vorrei chegli adulti che incontrerai fossero capaci di autorevolezza, fermi e coerenti: qualità dei piú saggi. La coerenza, mi piacerebbe per te. E la consapevolezza che nel mondo in cui verrai esistono oltre alle regole relazioni e che le une non sono meno necessarie delle altre, ma facce di una stessa luna presente.

Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse a inseguire le emozioni come gli aquiloni fanno con le brezze piú impreviste e spudorate; tutte, anche quelle che sanno di dolore. Mi piacerebbe che ti dicessero che la vita comprende la morte. Perché il dolore non è solo vuota perdita ma affettività, acquisizione oltre che sottrazione. La morte è un testimone che i migliori di noi lasciano ad altri nella convinzione che se ne possano giovare: cosí nasce il ricordo, la memoria piú bella che è storia della nostra stessa identità.

Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse a stare da sola, ti salverebbe la vita. Non dovrai rincorrere la mediocrità per riempire vuoti, né pietire uno sguardo o un’ora d’amore.

Impara a creare la vita dentro la tua vita e a riempirla di fantasia.

Adora la tua inquietudine finché avrai forze e sorrisi, cerca di usarla per contaminare gli altri, soprattutto i più pavidi e vulnerabili. Dona loro il tuo vento intrepido, ascolta il loro silenzio con curiosità, rispetta anche la loro paura eccessiva.

Mi piacerebbe che la persona che piú ti amerà possa amare il tuo congedo come un marinaio che vede la sua vecchia barca allontanarsi e galleggiare sapiente lungo la linea dell’orizzonte. E tu allora porterai quell’amore sempre con te, nascosto nella tua tasca piú intima.
… (altro)
 
Segnalato
MareMagnum | 1 altra recensione | Feb 20, 2006 |
Scrivere per me significa offrire opportunità di replica a parole, gesti, silenzi, ascoltati. Una replica appunto, un’impollinazione. Un’eco a ciò che ho avuto la fortuna e il privilegio di incontrare nella mia professione di psichiatra e vagabondo: un’eco a disordini etici, vacuità, disperazioni, indifferenze, tracotanze, indignazioni, sogni, rassegnazioni, vanità

Scrivere per me rappresenta una necessità: poter condividere un dolore che altrimenti mi sommergerebbe. Uscire dalle solitudini mie e di tante persone conosciute e solo sfiorate. Patteggiare il peso di ricatti subiti e di lontananze create. Non rassegnarmi all’improbabilità di trovare un filo di empatia capace di ricucire le nostre lacerazioni più profonde.

C’è bisogno di raccontare e di ascoltare, lo dice la gente che ogni giorno incontro e che temo di vivere annaspando tra privilegi muti, persone che vorrebbero intercettare autenticità per poter orientare le proprie vaghe regole di vota. Perché molti avvertono salire la nausea per l’artefatto, per un opportuno privo di senso, per una ritualità normativa, per una quotidiana finzione.

Scrivere, dunque comunicare, dunque frequentare terreni di confine per sperimentare intrusioni, confondimenti, intersezioni: utilizzare lo specifico, le competenze come necessaria partenza per cercare approdi non ancora pensati, non scontati. Cercare linguaggi, emozioni: esigenza primario per chi sente l’ambizione di liberarsi dalla necessità di difendere il proprio vocabolario del suo arido specialismo.

Un intellettuale non può certo pretendere di pensare il nuovo - qualità di pochi eccelsi - piuttosto dovrebbe accorgersi, assumere, replicare una necessità che a volte assomiglia a un’indignazione sopita, consegnata a un ordine omologato. Sbalordire, scuotere una comunità dove molti vorrebbero adattarsi all’idea che sia più facile star male che star bene: paradosso dello sviluppo della cultura occidentale.

C’è bisogno di raccontare e di ascoltare, lo dice una palpabile disperata necessità di tornare a sentire e sentirsi. A immaginarsi ogni volta diversi e vivi. Una necessità che sembra invece poter affiorare soltanto di fronte alle catastrofi, alle stragi, alle guerre, alle devastazioni. Come se l’uomo potesse ritrovarsi solamente davanti alla morte. Eppure educhiamo i nostri figli a fuggire ogni forma di dolore, ci ostiniamo a volerli tutelare infarcendoli di superfluo.

Forse per tornare a sentire dobbiamo innanzitutto rassicurarci, per non spaventarci troppo del mondo che abbiamo appena costruito: ma rassicurazione non è fuga, ma consapevolezza, acquisizione di coscienza, assunzione di responsabilità.

Ho cercato dunque di scrivere storie che parlano delle nostre paure, di ombre vanamente fuggite, di dolori pateticamente emendati. Per non naufragare dobbiamo forse pensarci come bambini disorientati. Per concederci quel bisogno di affabulazione, di legame possibile.

Affabulazione, parola desueta in epoca di grandi trasformazioni della quotidianità e di tecnologie applicate all’educare. Eppure non c’è nulla di più moderno della lettura di una fiaba, e nulla di più utile alla crescita di una comunità cosciente. L’affabulazione è infatti una forma straordinariamente efficace di pedagogia emotiva, uno strumento per costruire e saldare un rapporto affettivo.

Le fiabe - soprattutto quelle classiche, le più belle - sembrano scritte da persone sadiche tanto sono affollate di mostri, streghe, personaggi spaventosi, scene raccapriccianti. Naturalmente ci sono anche fate e principi, battaglie eroiche e imprese strabilianti: perché lo scopo principale di una buona favola - ovvero di ogni storia - è suscitare emozioni, emozioni forti e contrastanti, la ricerca della nostra identità più celata.

Si potrebbe anzi affermare che l’affabulazione consiste proprio nella capacità di indurre una casata di paure alternata a rassicurazioni che sprofondano a loro volta nello sconcerto per finire nella gioiosa scoperta del sortilegio e dell’incanto: come accade nella più stupefacente e gigantesca montagna russa di un lunapark. In altre parole l’affabulazione è transizione emozionale che avviene attraverso i contenuti raccontato o letti, ma anche e soprattutto per mezzo del contatto che si stabilisce tra il narratore e il bimbo o il lettore: il primo ascolta e partecipa attraverso il tatto, il tono della voce, le sospensioni, le carezze, i silenzi, il secondo essendo rapito dall’immaginazione, risucchiato da un processo di identificazione finalmente svelato.

La narrazione di una fiaba ha soprattutto una caratteristica intrinseca: non sopporta la lontananza, la delega. Esattamente come una scrittura di una storia. Chi potrebbe mai raccontare una favola a un bimbo seduto a dieci metri dal narratore? I grandi scrittori di fiabe erano forse crudeli, ma non tanto da immaginarsi che le loro opere meravigliose sarebbero state contenute in una videocassetta che un bimbo si sarebbe guardato sprofondato nel divano di casa, da solo alle cinque di pomeriggio. Chi potrebbe pretendere d’altra parte che la lettura di un brano di un romanzo di Calvino possa equivalere all’ascolto di quelle parole attraverso l’auricolare di un registratore correndo in mezzo a un parco?

Quante favole ci hanno raccontato quando eravamo piccoli? A me tante e cosí spero a voi, ma se qualcuno mi chiedesse quante me ne ricordo risponderei imbarazzato: poche Eppure se, chiudendo gli occhi, potessi sentire l’odore del borotalco di mia nonna che me le raccontava alla sera sdraiata accanto a me sul letto, non potrei confonderlo con nessun altro al mondo. E il profumo della carta di quei libroni illustrati, la porporina lucente dei titoli delle copertine, la fastidiosa sensazione della muffa respirata a ogni pagina girata?

L’affabulazione è dunque la sedimentazione di sensorialità (odore, sapore, tatto), acquisizione di emotività: e quando ci hanno insegnato queste meraviglie, non ce le siamo più scordate e le abbiamo cercate, quelle emozioni, per tutto il resto della vita.

L’affabulazione consente di alimentare e rafforzare il sistema immunitario psicologico di un bambino: quello che gli consentirà di non essere sopraffatto dalla noia e di non stufarsi mai di cercare la dimensione emotiva nei progetti che avrà e nelle decisioni che prenderà. Il racconto e la lettura di una storia hanno il compito di preservare nell’adulto il senso di quell’antica scoperta, di una imperscrutabile necessità.

In un mondo diviso da odio e distruzione, la favola non potrebbe insegnare agli adulti che i bambini hanno diritto a crescere sognando? E quegli adulti non possono ammettere a loro stessi che raccontare permette a ciascuno di continuare a comunicare emozioni, di non cedere al silenzio e all’incomprensione?

Scrivere, dunque, è per me ripristinare un ponte sospeso nella memoria di tante storie ascoltate da persone che me le affidavano. Quelle storie, quei brani di esistenza sono diventati parte di me, mia crescita, mia coscienza, mia stratificazione. Alla fine si sono trasformate a loro volta in altre storie, in altre parole affidate alla corrente dei nostri pensieri come un messaggio custodito in una bottiglia e abbandonata in un oceano.

Bottiglia spedita prima del naufragio.
… (altro)
 
Segnalato
MareMagnum | 2 altre recensioni | Feb 20, 2006 |

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