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Risultati da Google Ricerca Libri
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This book demonstrates how introverted people are misunderstood and undervalued in modern culture, charting the rise of extrovert ideology while sharing anecdotal examples of how to use introvert talents to adapt to various situations. At least one-third of the people we know are introverts. They are the ones who prefer listening to speaking, reading to partying; who innovate and create but dislike self-promotion; who favor working on their own over brainstorming in teams. Although they are often labeled "quiet," it is to introverts that we owe many of the great contributions to society, from van Gogh's sunflowers to the invention of the personal computer. Filled with indelible stories of real people, this book shows how dramatically we undervalue introverts, and how much we lose in doing so. Taking the reader on a journey from Dale Carnegie's birthplace to Harvard Business School, from a Tony Robbins seminar to an evangelical megachurch, the author charts the rise of the Extrovert Ideal in the twentieth century and explores its far-reaching effects. She talks to Asian-American students who feel alienated from the brash, backslapping atmosphere of American schools. She questions the dominant values of American business culture, where forced collaboration can stand in the way of innovation, and where the leadership potential of introverts is often overlooked. And she draws on cutting-edge research in psychology and neuroscience to reveal the differences between extroverts and introverts. She introduces us to successful introverts, from a witty, high-octane public speaker who recharges in solitude after his talks, to a record-breaking salesman who quietly taps into the power of questions. Finally, she offers advice on everything from how to better negotiate differences in introvert-extrovert relationships to how to empower an introverted child to when it makes sense to be a "pretend extrovert." This book has the ability to permanently change how we see introverts and, equally important, how introverts see themselves.… (altro)
Non so come sono arrivato a fare il Myer-Briggs personality test. Certo non mi sono stupito quando è emerso con chiarezza che sono una persona sensibile e introversa ma anche disponibile all’ascolto e ad aiutare gli altri.
Come potevo perciò restare indifferente di fronte al libro della Cain che richiamava la mia attenzione nello scaffale della mia libreria abituale? Ho avuto il sospetto che il libraio, conoscendomi un poco, lo avesse sistemato lì apposta… ma no, non è possibile. Gli introversi sono davvero molti di più di quanto sembri. D’altra parte c’era più di una copia sullo scaffale, quindi…
Non sono certo quello che la Cain in uno dei primi capitoli definisce un “estroverso simpaticone”. Ogni tanto riesco ad attaccare bottone con gli sconosciuti (un’espressione dialettale del Piemonte – la regione italiana in cui vivo – dice “de’ la tantara”, e io lo faccio ogni tanto) e mi piace farlo in modo ironico. Ma nella maggior parte delle occasioni sociali mi riconosco nella domanda che la Cain riporta a un certo punto: “Perché te ne stai in disparte e non dici niente?” Avete visto il film di Moretti in cui chiede: “mi si nota di più se vengo e non dico niente o se on vengo?” Ecco, quando mi prendono in giro i miei amici me la ripetono.
Mi sono piaciute molto le pagine che l’autrice dedica al lavoro di gruppo e al brainstorming e nelle quali riconosce - riferendosi a studi e ricerche documentate - l’importanza del silenzio e della riflessione individuale pur nell’ambito di un lavoro collettivo.
Ma forse mi hanno colpito di più le pagine che dedica alla “voce della coscienza”, dove parla di una donna - Eleanor Roosevelt - e delle tesi di Jadzia Jagiellowicz sulla sensibilità e la connessione con il pensiero complesso: “Se pensi in modo più complesso – sostiene la Jagiellowicz – parlare del tempo o di dove sei stata in vacanza non è altrettanto interessante che parlare di valori o di moralità”. Ecco io sono proprio così ed è per questo che specchiandomi negli sguardi degli altri mi trovo così terribilmente noioso.
Ma la Cain, tra i tanti studi che cita, cita anche Elaine Aron che sostiene che le persone sensibili siano estremamente empatiche (mi viene il dubbio che possa essere anche vero il contrario, ma è rilevante?) e sono anche acutamente consapevoli delle mancanze nel proprio comportamento e poco disponibili a perdonarsi. Oddio!! Sono proprio così!
Bene. E adesso – mi sono domandato - che so come sono e perché spesso sto male cosa me ne faccio? Brutta domanda, perché non è posta in modo corretto. La domanda giusta è: cose ce ne facciamo?
In un bel libro sulla fine delle illusioni (The end of illusions) Andreas Reckwitz ipotizza che la post modernità caratterizzata dallo sviluppo della singolarità stia arrivando a una fase critica, una fase in cui le scelte non possono più essere la somma delle scelte individuali ma vere scelte cumunitarie. Solo così si può realmente valorizzare gli individui e aumentare considerevolmente il benessere sociale. Solo così si può costruire il “Paese delle meraviglie” al quale si riferisce la Cain nelle sue conclusioni.
Ma questo futuro in cui noi introversi siamo costantemente proiettati è ancora tutto da progettato e costruire.
"Rispetta il bisogno di socializzazione dei tuoi cari ma anche il tuo di solitudine. Trascorri il tempo libero come più ti piace, non come ti senti obbligato a fare. Resta a casa la sera di Capodanno, se questo ti rende felice. Passa pure dall'altra parte della strada per evitare chiacchiere banali con persone che conosci appena." Il libro, come è scritto, non è niente di eccezionale. Le parti nella seconda metà che diventano quasi manuali per insegnanti e genitori contengono i soliti precetti che suonano superficiali. È molto orientato alla cultura americana e viene il dubbio che occorra tenerne conto su ogni cosa che dice. Però è pieno di esempi pratici in cui l'introverso si ritrova; si danno spiegazioni fisiologiche (l'ipersensibilità agli stimoli esterni, per esempio) per cui ci si sente meno in colpa per come si è; si fa l'esempio di comportamenti bizzarramente introversi di persone di successo (memorabile il professore che tra un convegno e il successivo andava sempre a rinchiudersi per un'ora in bagno per evitare di pranzare con i suoi ospiti); molto interessante l'analisi degli ambienti di lavoro in rapporto alla cultura aziendale e alle inclinazioni dei dipendenti (che conferma due osservazioni che ho fatto mie da tempo: l'open space è male, il multitasking è male). Alla fine del libro mi sono sentito meno in colpa per molte mie inclinazioni: è il libro del mio orgoglio di introverso. ( )
Dati dalle informazioni generali inglesi.Modifica per tradurlo nella tua lingua.
A species in which everyone was General Patton would not succeed, any more than would a race in which everyone was Vincent van Gogh. I prefer to think that the planet needs athletes, philosophers, sex symbols, painters, scientists; it needs the warmhearted, the hardhearted, the coldhearted, and the weakhearted. It needs those who can devote their lives to studying how many droplets of water are secreted by the salivary glands of dogs under which circumstances, and it needs those who can capture the passing impression of cherry blossoms in a fourteen-syllable poem or devote twenty-five pages to the dissection of a small boy's feelings as he lies in bed in the dark waiting for his mother to kiss him good night. . . . Indeed the presence of outstanding strengths presupposes that energy needed in other areas has been channeled away from them.
- Allen Shawn
Dedica
Alla famiglia in cui sono cresciuta
Incipit
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[Introduction] Montgomery, Alabama. December 1, 1955.
[Author's Note] I have been working on this book officially since 2005, and unofficially for my entire adult life.
The date: 1902. The place: Harmony Church, Missouri, a tiny, dot-on-the-map town located on a floodplain a hundred miles from Kansas City.
[Conclusion] Whether you're an introvert yourself or an extrovert who loves or works with one, I hope you'll benefit personally from the insights in this book.
[A Note on the Dedication] My grandfather was a soft-spoken man with sympathetic blue eyes, and a passion for books and ideas.
[A Note on the Words Introvert and Extrovert] This book is about introversion as seen from a cultural point of view.
Citazioni
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To ask whether it's nature or nurture ... is like asking whether a blizzard is caused by temperature or humidity.
"It's so easy to confuse schmoozing ability with talent. Someone seems like a good presenter, easy to get along with and those traits are rewarded. Well, why is that? They're valuable traits but we put too much of a premium on presenting and not enough on substance and critical thinking." (one venture capitalist)
We need leaders who build not their own egos but the institutions they run.
So if, deep down, you've been thinking that it's only natural for the bold and sociable to dominate the reserved and sensitive, and that the Extrovert Ideal is innate to humanity, Robert McCrae's personality map suggests a different truth: that each way of being—quiet and talkative, careful and audacious, inhibited and unrestrained—is characteristic of its own mighty civilization.
If there is one insight you take away from this book, though, I hope it's a newfound sense of entitlement to be yourself.
The U.S Army has a name for a similar phenomenon: "the Bus to Abilene." "Any army officer can tell you what that means," Colonel (Ret.) Stephen J. Gerras, a professor of behavioral sciences at the U.S. Army War College, told Yale Alumni Magazine in 2008. "It's about a family sitting on a porch in Texas on a hot summer day, and somebody says, 'I'm bored. Why don't we go to Abilene?' When they get to Abilene, somebody says, 'You know, I didn't really want to go.' And the next person says, 'I didn't want to go—I thought you wanted to go,' and so on. Whenever you're in an army group and somebody says, 'I think we're all getting on the bus to Abilene here,' that is a red flag. You can stop a conversation with it. It is a very powerful artifact of our culture."
We don't need giant personalities to transform companies. We need leaders who build not their own egos but the institutions they run.
Grant had a theory about which kinds of circumstances would call for introverted leadership. His hypothesis was that extroverted leaders enhance group performance when employees are passive, but that introverted leaders are more effective with proactive employees.
Grant says it makes sense that introverts are uniquely good at leading initiative-takers. Because of their inclination to listen to others and lack of interest in dominating social situations, introverts are more likely to hear and implement suggestions. Having benefited from the talents of their followers, they are then likely to motivate them to be even more proactive. Introverted leaders create a virtuous circle of proactivity, in other words.
Extroverts, on the other hand, can be so intent on putting their own stamp on events that they risk losing others' good ideas along the way and allowing workers to lapse into passivity.
But with the natural ability to inspire, extroverted leaders are better at getting results from more passive workers.
Open-plan offices have been found to reduce productivity and impair memory. They're associated with high staff turnover. They make people sick, hostile, unmotivated, and insecure. Open-plan workers are more likely to suffer from high blood pressure and elevated stress levels and to get the flu; they argue more with their colleagues; they worry about coworkers eavesdropping on their phone calls and spying on their computer screens. They have fewer personal and confidential conversations with colleagues. They're often subject to loud and uncontrollable noise, which raises heart rates; releases cortisol, the body's fight-or-flight "stress" hormone; and makes people socially distant, quick to anger, aggression, and slow to help others.
Indeed, excessive stimulation seems to impede learning: a recent study found that people learn better after a quiet stroll through the woods than after a noisy walk down a city street. Another study, of 38,000 knowledge workers across different sectors, found that the simple act of being interrupted is one of the biggest barriers to productivity. Even multitasking, that prized feat of modern-day office warriors, turns out to be a myth.
Schwartz's research suggests something important: we can stretch our personalities, but only up to a point. Our inborn temperaments influence us, regardless of the lives we lead. A sizable part of who we are is ordained by our genes, by our brains, by our nervous systems. And yet the elasticity that Schwartz found in some of the high-reactive teens also suggests the converse: we have free will and can use it to shape our personalities.
We might call this the "rubber band theory" of personality. We are like rubber bands at rest. We are elastic and can stretch ourselves, but only so much.
But what [my grandfather] loved to to best was to read. In his small apartment, where as a widower he'd lived alone for decades, all the urniture had yielded its original function to serve as a surface for piles of books: gold-leafed Hebrew texts jumbled together with Margaret Atwood and Milan Kumdera.
This book demonstrates how introverted people are misunderstood and undervalued in modern culture, charting the rise of extrovert ideology while sharing anecdotal examples of how to use introvert talents to adapt to various situations. At least one-third of the people we know are introverts. They are the ones who prefer listening to speaking, reading to partying; who innovate and create but dislike self-promotion; who favor working on their own over brainstorming in teams. Although they are often labeled "quiet," it is to introverts that we owe many of the great contributions to society, from van Gogh's sunflowers to the invention of the personal computer. Filled with indelible stories of real people, this book shows how dramatically we undervalue introverts, and how much we lose in doing so. Taking the reader on a journey from Dale Carnegie's birthplace to Harvard Business School, from a Tony Robbins seminar to an evangelical megachurch, the author charts the rise of the Extrovert Ideal in the twentieth century and explores its far-reaching effects. She talks to Asian-American students who feel alienated from the brash, backslapping atmosphere of American schools. She questions the dominant values of American business culture, where forced collaboration can stand in the way of innovation, and where the leadership potential of introverts is often overlooked. And she draws on cutting-edge research in psychology and neuroscience to reveal the differences between extroverts and introverts. She introduces us to successful introverts, from a witty, high-octane public speaker who recharges in solitude after his talks, to a record-breaking salesman who quietly taps into the power of questions. Finally, she offers advice on everything from how to better negotiate differences in introvert-extrovert relationships to how to empower an introverted child to when it makes sense to be a "pretend extrovert." This book has the ability to permanently change how we see introverts and, equally important, how introverts see themselves.
Come potevo perciò restare indifferente di fronte al libro della Cain che richiamava la mia attenzione nello scaffale della mia libreria abituale? Ho avuto il sospetto che il libraio, conoscendomi un poco, lo avesse sistemato lì apposta… ma no, non è possibile. Gli introversi sono davvero molti di più di quanto sembri. D’altra parte c’era più di una copia sullo scaffale, quindi…
Non sono certo quello che la Cain in uno dei primi capitoli definisce un “estroverso simpaticone”. Ogni tanto riesco ad attaccare bottone con gli sconosciuti (un’espressione dialettale del Piemonte – la regione italiana in cui vivo – dice “de’ la tantara”, e io lo faccio ogni tanto) e mi piace farlo in modo ironico. Ma nella maggior parte delle occasioni sociali mi riconosco nella domanda che la Cain riporta a un certo punto: “Perché te ne stai in disparte e non dici niente?” Avete visto il film di Moretti in cui chiede: “mi si nota di più se vengo e non dico niente o se on vengo?” Ecco, quando mi prendono in giro i miei amici me la ripetono.
Mi sono piaciute molto le pagine che l’autrice dedica al lavoro di gruppo e al brainstorming e nelle quali riconosce - riferendosi a studi e ricerche documentate - l’importanza del silenzio e della riflessione individuale pur nell’ambito di un lavoro collettivo.
Ma forse mi hanno colpito di più le pagine che dedica alla “voce della coscienza”, dove parla di una donna - Eleanor Roosevelt - e delle tesi di Jadzia Jagiellowicz sulla sensibilità e la connessione con il pensiero complesso: “Se pensi in modo più complesso – sostiene la Jagiellowicz – parlare del tempo o di dove sei stata in vacanza non è altrettanto interessante che parlare di valori o di moralità”. Ecco io sono proprio così ed è per questo che specchiandomi negli sguardi degli altri mi trovo così terribilmente noioso.
Ma la Cain, tra i tanti studi che cita, cita anche Elaine Aron che sostiene che le persone sensibili siano estremamente empatiche (mi viene il dubbio che possa essere anche vero il contrario, ma è rilevante?) e sono anche acutamente consapevoli delle mancanze nel proprio comportamento e poco disponibili a perdonarsi. Oddio!! Sono proprio così!
Bene. E adesso – mi sono domandato - che so come sono e perché spesso sto male cosa me ne faccio? Brutta domanda, perché non è posta in modo corretto. La domanda giusta è: cose ce ne facciamo?
In un bel libro sulla fine delle illusioni (The end of illusions) Andreas Reckwitz ipotizza che la post modernità caratterizzata dallo sviluppo della singolarità stia arrivando a una fase critica, una fase in cui le scelte non possono più essere la somma delle scelte individuali ma vere scelte cumunitarie. Solo così si può realmente valorizzare gli individui e aumentare considerevolmente il benessere sociale. Solo così si può costruire il “Paese delle meraviglie” al quale si riferisce la Cain nelle sue conclusioni.
Ma questo futuro in cui noi introversi siamo costantemente proiettati è ancora tutto da progettato e costruire.