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Autore di Manuale di Epitteto
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A pensarci un pochino, è una ricetta piuttosto radicale. È vero che il nostro corpo per lo più non è in nostro potere, ma è la base e la radice della nostra esistenza: possiamo davvero non curarcene? Se perdi la moglie, un figlio, i tuoi beni, non devi affliggerti, dice Epitteto: pensa solo che li avevi come in prestito, e che sono stati restituiti. Desiderare qualcosa significa dare potere a chi quel qualcosa può concederlo o negarlo; non desiderare, e sarai libero. Se qualcosa ti turba, accusa soltanto te stesso, ovvero i tuoi giudizi (errati). Non tentare di far accadere ciò che desideri, ma desidera ciò che accade, qualunque cosa accada, così come viene. Anche ammesso che sia corretto, davvero si può giungere a un tale atteggiamento? Davvero si può vivere così? Chi ci riesce, otterrà forse imperturbabilità e libertà, ma mi pare una ricetta per una vita ascetica e di rinuncia, e anche sterile, isolata e persino solipsistica.
Dietro questa concezione c'è l'idea stoica secondo cui l'universo è animato e governato da un principio razionale, una provvidenza che regola ogni cosa e fa accadere tutto per il meglio. Ma a me quest'idea, con rispetto parlando, sembra una sciocchezza colossale. L'universo è caotico, violento, indifferente, probabilmente insensato, e traboccante di sofferenza. Non c'è vita senza sofferenza e senza costrizioni, e pretendere di eliminarle è un'illusione. A meno di non spingere la vita stessa fin verso una qualche forma di annullamento, come mi sembra che tenda a fare l'etica di Epittetto se applicata fino in fondo (e come mi sembra che facciano altre dottrine che tendono alla liberazione dai mali del mondo, come il buddismo con il nirvana).
Se non si vuole o non si può giungere a tutto ciò, per il resto questo manuale contiene una serie di indicazioni ispirate a continenza, prudenza, moderazione, che si possono comunque prendere come direttive di vita ispirate a saggezza.