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Recensioni

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[...] ché quando io parlo della «banalità del male,» lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che «fare il cattivo» - come Riccardo Terzo - per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli "non capì mai che cosa stava facendo". [...] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d'idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo. E se questo è «banale» e anche grottesco, se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò non vuol dire che la sua situazione e il suo atteggiamento fossero comuni. Non è certo molto comune che un uomo di fronte alla morte, anzi ai piedi della forca, non sappia pensare ad altro che alle cose che nel corso della sua vita ha sentito dire ai funerali altrui, e che certe «frasi esaltanti» gli facciano dimenticare completamente la realtà della propria morte. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d'idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria.

E' un libro che dà molto da pensare. A torto o a ragione siamo abituati a pensare in termini di Bene e Male assoluto quando si tratta del nazismo. I nazisti erano i cattivi, gli ebrei erano i buoni. Punto. E' così che ci insegnano a storia, quando andiamo a scuola. E questa visione così drastica, netta, di quegli eventi turbò le persone al processo di Adolf Eichmann, perché non si trovarono di fronte un mostro, uno che avrebbero potuto odiare facilmente, ma una persona normale e neanche troppo brillante. Era un uomo pericolosamente simile a tanti di quelli che stavano dalla parte del “bene”.

Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica - come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni - che questo nuovo tipo di criminale, realmente "hostis generis humani", commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male.

Come a dire, la normalità è pericolosa e nessun “normale” può dirsi immune alla follia, al virus dell'incapacità di distinguere il bene dal male. Perché la normalità è pericolosa? Istintivamente, sembra proprio un ossimoro accostare “normalità” all'aggettivo “pericolosa”. Eppure è così, basta rifletterci un attimo. Tutto dipende da cosa intendiamo per “normalità”. Fare colazione la mattina? Portare la fede al dito dopo il matrimonio? Sterminare i soggetti deboli della società perché così ci è stato ordinato?

Non so se Hannah Arendt abbia assolutamente ragione sulla “banalità del male”. Certamente questo è un libro che pone più interrogativi di quanti non ne risolva e solo per questo meriterebbe di essere letto da chiunque.

Nessuna pena ha mai avuto il potere d'impedire che si commettano crimini. Al contrario, quale che sia la pena, quando un reato è stato commesso una volta, la sua ripetizione è più probabile di quanto non fosse la sua prima apparizione. E le ragioni particolari per cui non è da escludere che qualcuno faccia un giorno ciò che hanno fatto i nazisti, sono ancor più plausibili.

Non è affatto escluso che nell'economia automatizzata di un futuro non troppo lontano gli uomini siano tentati di sterminare tutti coloro il cui quoziente d'intelligenza sia al di sotto di un certo livello.
 
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lasiepedimore | 59 altre recensioni | Aug 2, 2023 |
Mi stupiscono sempre la lucidità e la chiarezza di Hannah Arendt. Poche pagine le bastano per far emergere i nodi di un problema. Molto bella la riflessione sulle reazioni individuali, sullo scoramento, sulla perdita della propria identità individuale come perdita dell’intimità, perdita della fiducia nella propria utilità, perdita della possibilità di un’espressione spontanea di sé. Oppure la pagina dove coglie il paradosso del preferire la morte all’alienazione, alla perdita del proprio status sociale, perché se è vero che una persona che vuole liberarsi del proprio sé scopre in effetti le possibilità dell’esistenza umana che sono infinite, come infinita è la creazione. Ma il recupero di un nuova personalità è arduo - e illusorio - quanto un nuova creazione del mondo.
Confesso però che questa edizione mi sembra un po’ strana. Se mi sembra importante recuperare il testo della Arendt mi sembra eccessivo lo spazio di commento, nel quale spesso si finisce per rileggere contenuti già chiari nell’originale.
 
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claudio.marchisio | 1 altra recensione | Oct 18, 2022 |
Otto Adolf Eichmann, catturato in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell'11 maggio 1960, trasportato in Israele nove giorni dopo in aereo e tradotto dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme l'11 aprile 1961, doveva rispondere di quindici imputazioni, avendo commesso, "in concorso con altri", crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l'umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare durante la Seconda guerra mondiale. Hannah Arendt va a Gerusalemme come inviata del "New Yorker". Assiste al dibattimento in aula e negli articoli scritti per il giornale sviscera i problemi morali, politici e giuridici che stanno dietro al caso Eichmann. Ne nasce un libro scomodo: pone le domande che non avremmo mai voluto porci, dà risposte che non hanno la rassicurante certezza di un facile manicheismo. Il Male che Eichmann incarna appare alla Arendt "banale", e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo secolo non hanno la "grandezza" dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano. (fonte: ibs)
 
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MemorialeSardoShoah | 59 altre recensioni | Apr 24, 2020 |
Il titolo inganna; il sottotitolo, Eichmann in Jerusalem, no. In effetti il libro parla del processo che tenne nel 1961 contro Adolf Eichmann concluso, chiaramente, con la condanna a morte. La filosofa Arendt lascia il passo in questo libro alla cronista, alla giornalista; infatti, è un racconto giudiziario, ricco di particolari e di ricostruzioni storiche del personaggio Eichmann; la Arendt si sofferma sullo stravagante arresto avvenuto a Buenos Aires da parte dei miliziani israeliani. E ci racconta la composizione della corte, le caratteristiche dei magistrati che si sono trovati a giudicare un uomo già giudicato di fatto dalla storia. Nei racconti di Eichmann, nella sua ricostruzione di quanto avvenuto in particolar modo negli ultimi anni si rilegge parte della folle storia del nazismo. Certo le memorie di Albert Speer hanno tutt’altra valenza. Ma è un libro che aiuta a riflettere sulla diffusa mediocrità di chi spesso scrive la storia. Ecco il titolo, la banalità del male. Quanto poco ci vuole per essere pessimi. E quante volte i banali eccellono proprio vantando la propria banalità. Arrivando a dipingere importanti pagine di storia con la loro meschinità.½
 
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grandeghi | 59 altre recensioni | Dec 14, 2019 |
Un titolo entrato nell’immaginario collettivo per un saggio ancor oggi di fondamentale importanza: se prendere in mano il libro incute un certo timore reverenziale, il doverne parlare è un compito difficoltoso visto che proprio nella banalità, seppur di ben diverso tipo, si rischia di scivolare. Non è però l’unico disagio che si prova e neppure il più grave: come accade sempre leggendo opere di analogo argomento, si viene pervasi da una sensazione disturbante che qui è accentuata dall’implacabile procedere dell’analisi con cui la studiosa tedesca naturalizzata statunitense sviscera la tragedia dell’Olocausto. Arendt va a Gerusalemme come inviata del New Yorker per seguire il processo ad Adolf Eichmann, funzionario di medio calibro delle SS incaricato della soluzione (finale e non) della questione ebraica, prelevato dagli israeliani in Argentina per venire processato dinanzi a un tribunale. Dallo studio dell’imputato attraverso le sue azioni durante la persecuzione e i suoi pensieri o parole nel periodo di prigionia, l’autrice prende lo spunto per un approfondimento che va ben al dilà della lineare corrispondenza giornalistica diventando l’esposizione delle logiche di come un crimine mostruoso possa scaturire da una routinaria attività burocratica. Alla base di una simile distorsione sta l’evaporare della coscienza individuale nella convinzione che, se si è una rotella di maggiore o minore dimensione, altro non si può fare che girare nel verso richiesto dal meccanismo: è questa acquiescenza priva di reazione che segna senza speranza la colpevolezza di Eichmann e di tutti coloro che si comportarono come lui perché in certe situazioni, obbedire agli ordini è un’aggravante. A questo scopo, sono fondamentali gli esempi di come la solo all’apparenza inscalfibile ferocia nazista si andasse attenuando alla ricerca di accomodamenti non appena qualcuno si mettesse più o meno timidamente di traverso, fino al caso eclatante della Bulgaria da dove non fu deportato nessuno: considerazione per la quale risulta necessario il racconto della caccia all’ebreo nei vari Paesi europei che si estende nei capitoli centrali causando a tratti un affaticamento nella lettura. Così, benché non vengano nascoste le lacune nell’organizzazione delle udienze – dal rapimento in Sudamerica a uno svolgimento assai poco equo – la pena capitale rimane l’inevitabile sbocco anche per stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di giustificazionismo: se Eichmann è lontano dal rappresentare l’incarnazione classica del male, lo rappresenta tuttavia in maniera tanto più inquietante. Nel considerare l’esito del dibattimento, va inoltre tenuta presente l’epoca in cui si tenne (e in cui il volume fu pubblicato), un momento nel quale l’Olocausto non giocava ancora il ruolo attuale nel sistema di valori occidentale e la Germania non aveva fatto i conti con il recente, tragico passato (basti pensare che Willy Brandt era solo il sindaco di Berlino Ovest): la forza delle argomentazioni dell’autrice – che comunque si guarda bene dal concedere sconti a chiunque, ebrei inclusi – hanno anzi aiutato questa maturazione grazie altresì a una prosa non semplice, ma che sa essere coinvolgente in special modo quando cerca di gettare luce sulla personalità del criminale nazista.
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catcarlo | 59 altre recensioni | May 14, 2016 |
Pubblicato per la prima volta nel 1951, è un classico della filosofia politica e della politologia del Novecento ed elabora una teoria del totalitarismo destinata ad assumere valore paradigmatico. Per la prima volta il fenomeno totalitario viene preso in esame nel suo significato generale, considerandone anche le implicazioni culturali e filosofiche oltre a quelle storiche e politiche. La Arendt sostiene che il totalitarismo rappresenta il luogo di cristallizzazione delle contraddizioni dell'epoca moderna, ma segna anche la comparsa nella storia occidentale di un fenomeno nuovo e impensato. Le categorie della politica, del diritto, dell'etica risultano inutilizzabili poichè è un fenomeno che travalica i confini della semplice oppressione.
 
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hanscastorp | 35 altre recensioni | Sep 10, 2006 |
Descrizione:

La filosofa si reca a Gerusalemme quale inviata del New Yorker per il processo contro il nazista Adolf Eichmann, imputato di crimini contro l'umanità, il popolo ebraico e crimini di guerra. Da qui nasce la riflessione sulla natura del Male, banale e per ciò stesso più terribile: i suioi servitori non sono demoni, ma solamente grigi burocrati
Quarta di copertina:

"Otto Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf e di Maria Schefferling, catturato in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell'11 maggio 1960, trasportato in Israele nove giorni dopo, in aereo e tradotto dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme l'11 aprile 1961, doveva rispondere di quindici imputazioni, avendo commesso, 'in concorso con altri', crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l'umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare durante la seconda guerra mondiale." Hannah Arendt va a Gerusalemme come inviata del "New Yorker". Assiste al dibattimento in aula e negli articoli scritti per il giornale sviscera i problemi morali, politici e giuridici che stanno dietro al caso Eichmann. Ne nasce un libro scomodo: pone le domande che non avremmo mai voluto porci, dà risposte che non hanno la rassicurante certezza di un facile manicheismo. Il Male che Eichmann incarna appare alla Arendt "banale", e perci" tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo secolo non hanno la "grandezza" dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano.
 
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MareMagnum | 59 altre recensioni | Jan 26, 2006 |
Testimonianza diretta del "Processo di Norimberga" e sua interpretazione
 
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giap | 59 altre recensioni | Jun 20, 2008 |
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