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Il Simposio dei sette sapienti

di Plutarch

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Questo motto viene attribuito, da Plutarco, in un'operetta intitolata Il simposio dei sette sapienti, a Solone, il saggio del VI secolo a. C. cui i cittadini ateniesi, all'epoca in cui la poleis ancora non aveva leggi scritte, e la volontà di alcune potenti famiglie aristocratiche regnava incontrastata, chiesero di scrivere delle leggi che li sottraessero ad abusi e soprusi. Solone non fu certo un anarchico ante-litteram, e ogni forzatura del suo pensiero in tal senso apparirebbe stonata ed eccessiva, ma egli fu tra i primi a criticare, nelle sue elegie, e combattere concretamente, con la sua legislazione, lo strapotere e la corruzione dei "reggitori del popolo" e la "piaga insanabile" della schiavitù".
Verso gli inizi del VI° secolo, ad Atene, "un pugno di famiglie controllava tutte le risorse e tutte le sanzioni" e la città "era di fronte ad una situazione rivoluzionaria, del tipo che altrove aveva portato all'affermarsi della tirannide". I cittadini, allora, chiesero pubblicamente a Solone di scrivere le leggi della città. "Questo è il punto - scrive M.I. Finley - egli fu scelto dagli stessi ateniesi, di loro iniziativa, e per loro autorità", "egli non era 'chiamato' e non aveva vocazione", cioè non si presentava come un inviato degli dei, "né prese il potere da tiranno"; mentre "la classe dirigente, sembra, cercò la sua mediazione solo per paura di una rivoluzione che avrebbe potuto spazzarla via". Solone scrisse nei suoi poemi di essersi schierato innanzitutto contro l'arroganza" e la "superbia" di quei "reggitori del popolo" diventati "ricchi grazie alle loro opere inique", e contro la "piaga insanabile" che vedeva i cittadini poveri "venduti schiavi, costretti indegnamente in catene". Egli adottò la misura rivoluzionaria di abolire la schiavitù per debiti, facendo liberare tutti coloro che per tale motivo erano costretti a lavorare per altri senza compenso, e fece restituire ai proprietari originari "le terre che questi avevano perdute per darle in garanzia di prestiti". Solone riformò anche le regole dell'accesso alle cariche governative, modificando la situazione di fatto, che vedeva il monopolio del potere politico tramandarsi per discendenze familiari, e "senza badare ai diritti della nascita, istituì quattro classi distinte sulla base del reddito agricolo. L'appartenenza a queste classi costituiva il titolo per rivestire cariche pubbliche".
Infine, come conferma egli stesso nei suoi scritti posteriori, ricevuta l'offerta di diventare tiranno della città, il poeta rifiutò, e, completata la sua opera, "lasciò Atene per dieci anni in modo che la comunità potesse sperimentare senza pregiudizi il suo programma".
Solone fece parte di quella componente illuminata del movimento sapienziale che ebbe il coraggio di incominciare a rivendicare l'assunzione umana dell'azione politica, del comportamento etico, delle pratiche conoscitive, e in tal modo contribuì alla nascita della ricerca filosofica e ad un radicale rinnovamento della cultura greca.
Questo atteggiamento dette inizio, di fatto, ad una revoca di quel consenso aprioristico e incondizionato che la tradizione e l'opinione comune avevano precedentemente concesso all'ordine sociale e politico esistente, considerandolo come "naturale", apparentandolo alla sfera del sacro, accreditando il mito di una sua origine divina. È difficile valutare l'impatto che questo mutamento ebbe sulle forme della vita associata.
L'assunzione umana e personale dei discorsi e delle pratiche politiche, iniziata col movimento sapienziale, ebbe, però, alla lunga, l'effetto di delegittimare, almeno in certe fasi e in certi luoghi della civiltà greca, quei discorsi e quelle pratiche che basavano la propria autorità solo sulla continuità con la tradizione o sulla pretesa di un rapporto privilegiato col divino. Essa finì anche per spostare il luogo deputato alla decisione politica, indicando il terreno del confronto paritetico tra i discorsi e tra le pratiche di tutti i cittadini (ma, attenzione, non delle donne e degli schiavi), e la valutazione critica dei discorsi e delle pratiche, sulla base della loro maggiore o minore capacità di produrre "vantaggi" per la comunità, come i soli spazi deputati alla maturazione delle scelte politiche. Anche se il motto "È preferibile non comandare" non compare tra le sentenze attribuite a Solone, nelle attuali edizioni antiche, e se, come è ovvio, le riforme che egli propose possono essere comprese, nella loro radicale capacità di innovazione, solo rapportandole al contesto economico e socio-politico in cui nacquero, non è un caso che, a distanza di molti secoli, in un clima politico totalmente mutato, in cui ormai dominavano gli imperi, e nessuna speranza di autogoverno era concessa alle città greche, Plutarco abbia legato il nome di quell'antico saggio e poeta a un motto così audace.
Solone restò, nella memoria degli ateniesi, come colui che aveva posto esigenze radicali di giustizia che né ì partiti "democratici", né le fazioni "aristocratiche" seppero, nei secoli seguenti, esaudire. Ma il motto che Plutarco gli attribuisce pone un problema che nessuno dei regimi succedutisi, in Occidente e in Oriente, nei due millenni e mezzo successivi alla sua morte, è stato in grado di onorare, affrontare, risolvere. Esso insegna che non solo è preferibile "non obbedire", essere liberi di scegliere il proprio destino e maturare le proprie scelte, ma anche "non comandare" poiché il sottomettere abbrutisce chi compie l'atto, come chi lo subisce; il potere lede e rimbecillisce chi ce l'ha e chi non ce l'ha. È preferibile una società dove si comandi e obbedisca il meno possibile, in cui il fine della formazione di ognuno sia la sua stessa libertà, e ogni vita sia restituita a chi la vive, accolta nella società, non oppressa e sfruttata da essa.
Il motto attribuito a Solone pone, perciò, problemi che solo una società disposta a sperimentare l'anarchia potrebbe affrontare. ( )
  MareMagnum | Apr 2, 2006 |
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