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Sto caricando le informazioni... Nicht ohne meine Tochter (originale 1987; edizione 1990)di Betty Mahmoody (Autore)
Informazioni sull'operaMai senza mia figlia di Betty Mahmoody (1987)
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È contenuto inHa un sequel (non seriale)È riassunto in
The true story of Betty Mahmoody's desperate struggle to survive and to escape with her daughter from the alien and frightening culture of Iran. Non sono state trovate descrizioni di biblioteche |
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Google Books — Sto caricando le informazioni... GeneriSistema Decimale Melvil (DDC)305.4092Social sciences Social Sciences; Sociology and anthropology Groups of people Women Women - subdivisions Biography And History BiographyClassificazione LCVotoMedia:
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In quel clima da oligarchia clericale integralista, nel 1984, Betty Mahmoody, emancipata donna americana, felicemente sposata con un medico iraniano che vive negli Stati Uniti da vent’anni, con cui ha dato alla luce la piccola Mahtob, s’imbarca su di un volo alla volta di Teheran, la capitale di una nazione che ha dichiarato guerra all’Occidente e che ha sapientemente coltivato, sin dall’epoca degli ostaggi dell’ambasciata, un odio profondo e radicato per gli americani. Ma, in fondo, giura sul libro sacro dell’Islam il marito, si tratta solo di una “visita parenti” di un paio di settimane, giusto per far conoscere alla famiglia persiana moglie e figlia. Figurarsi se quell’uomo, la cui vita è ormai così profondamente radicata in America, posso solamente immaginare di vivere in Iran!
La tragedia dell’inimmaginabile però, anche se i prodromi dello scompenso emotivo da terra natia erano nascosti dietro l’angolo, è raccontata in questo “Mai senza mia figlia (Una storia vera)” di Betty Mahmoody con William Hoffer (Sperling & Kupfer 1991), uscito in USA nel 1987 e tradotto in italiano da Elena Malossini Fumero. Parliamo di un “memoir” emotivamente coinvolgente, in cui l’autrice fa partecipe il lettore della sua drammatica esperienza: un viaggio senza ritorno deciso da un uomo ipnotizzato da una risvegliata paleomemoria culturale in cui l’Islam si mescola al maschilismo sciovinista. Un uomo che ha deciso di trattenere e rinchiudere moglie e figlia in una prigione culturale basata sull’oppressione ed il controllo, specchio di un modello di pensiero, quello della società iraniana degli anni Ottanta, tutt’altro che aperto alle pari opportunità.
Nel libro non c’è solo la narrazione degli eventi: le feste di benvenuto, il clima familiare che muta giorno dopo giorno, il rifiuto a tornare a casa del marito, la coercizione, anche fisica, esercitata per adottare una cultura aliena alla propria. C’è un turbinio di emozioni forti che si mescolano alle parole usate per raccontare i paesaggi fisici e che trasportano chi legge ben oltre la geografia del racconto. Ci si immerge a fondo nella dimensione emotiva di Betty e di sua figlia Mahtob, diventando partecipi ed interpreti noi stessi dall'oppressione del marito e della cultura iraniana di quel momento, vivendo, pagina dopo pagina, i momenti di ansia, la tensione, la speranza e, alla fine, la gioia della liberazione.
Se Betty Mahmoody mette il suo vissuto in questo libro, è però la scrittura ricca di dettagli di William Hoffer, autore di bestseller internazionali da decenni, a dare vita ad una sceneggiatura dotata di eccellente ritmo nella scansione delle scene e dei primi piani con cui caratterizza i personaggi. Non è quindi casuale che questo lavoro, cui ha collaborato anche la moglie Marilyn, sia diventato un fenomeno internazionale di straordinario successo e persino un film con Sally Field e Alfred Molina. Successo che ha seguito quello che Hoffer ha firmato con Billy Hayes: “Midnight Express” (Fuga di mezzanotte), poi trasformato in un film con Brad Davis, John Hurt e Randy Quaid. Oppure “Freefall”, thriller avvincente che racconta la quasi tragedia del volo Air Canada 174 che rimase senza carburante a 41.000 piedi di quota, anch’esso diventato un film con William Devane, Shelley Hack e Mariette Hartley.
Si impone, più di altri elementi, in questo “Mai senza mia figlia (Una storia vera)”, il legame profondo tra madre e figlia. Una madre che descrive nel racconto con profonda sincerità sfide e sacrifici che è costretta ad affrontare per proteggere la figlia. Un legame che, a tratti, si trasforma in un’unica entità che cerca di ribellarsi all’oppressione e lotta per rivendicare il diritto di esistere, di fare, di decidere. Il che ne fa un tributo senza eguali alla forza dell'amore materno ed alla resilienza femminile.
Obbligata a vestire ed a comportarsi come una donna ed una moglie iraniana, prigioniera di un ruolo relegato alla sottomissione, la protagonista è costretta persino a rinunciare a rivedere il padre malato per l’ultima volta, perché il suo ritorno in America è consentito ad una condizione: lasciare in Iran la figlia, per sempre. Un ultimatum inaccettabile, talmente coercitivo per una madre da spingere, anzi stimolare Betty a recitare un ruolo capace di mascherare il suo rocambolesco progetto di fuga: incerta, pericolosa, temeraria, avventurosa. Ma sempre migliore di una prigionia che opprime la mente e il cuore, prima ancora del corpo. Nelle mani di contrabbandieri, tra i monti della Turchia, su piste sconnesse e poi finalmente a casa.
La storia di Betty Mahmoody e della piccola Mahtob, oltre a risvegliare la nostra sopita attenzione sul tema dei “rapimenti” di bambini con genitori cittadini di nazioni diverse, ci offre anche un'importante prospettiva culturale e storica sull’Iran della rivoluzione islamica, permettendoci di gettare uno sguardo intimo sulle tradizioni, sulle le norme sociali, le leggi del Paese, i diritti delle donne, gettando luce sulla complessità della società iraniana.
Come molti hanno fatto notare, questo libro può essere oggetto di critica per aver elargito al lettore uno stereotipo culturale che mostra un Islam radicale e repressivo nei confronti delle donne. Pregiudizievole dunque! Ma è una critica sterile. Sterile poiché questo libro è una memoria personale, vissuta, vera. Che non punta il dito su una religione, ma sull’uso che una società o chi la governa ne fa. Non è infatti per nulla simile al racconto di fiction della lapidazione femminile descritta in “Carovane” di James A Michener (benché tanto ci ricordi i filmati dell’Afghanistan talebano). Sterile come quella letteratura di cronaca o di esperienza che ci racconti esperienze contrapposte a quella del libro, fatti antagonisti all’attuale stato delle cose in certi Paesi che leggeremo volentieri. Sterile culturalmente, in quanto il lettore intelligente non mancherà certamente di attingere ad altre fonti qualora voglia cercare tra altre fonti punti di equilibrio. Critica ancora più sterile, se vista nell’ottica di dover censurare il racconto di un’esperienza che condanna quello specifico frangente e certamente non l’intero mondo iraniano, quello che aiuterà Betty Mahmoody a resistere e a fuggire e che l’autrice non manca di ringraziare.
Libro incontestabile e dall’eco duratura, invece, quale esempio straordinario di coraggio e determinazione. Storia di sopravvivenza, resilienza e amore familiare incondizionato.
Recensione pubblicata su: https://www.territoridicarta.com/blog/prigioniera-delliran-anni-ottanta-mai-senz...
https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/ ( )