A un uomo di scienza è difficile far digerire parole come quelle che Dio disse a Giobbe, secondo uno dei più lunghi, complessi e misteriosi passi dell’Antico Testamento. La risposta, di solito, è che trattasi di favole, di storielle buone per fare sogni d’oro. Una sorta di camomilla per l’anima in tumulto che si domanda – sempre meno, a dire il vero – se c’è qualcosa (e se sì, cosa) dopo la fine naturale della vita. Questioni che dall’antichità angosciarono generazioni di uomini, tra i quali molti sul tema composero pagine tra le più belle che siano mai state scritte. Allegorie, insomma, dice chi non ci crede e ripone la propria fede sulla tavola periodica degli elementi: Giobbe sì, ma anche Cristo, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Lazzaro che si alza e cammina, la Resurrezione. Lasciando stare Immanuel Kant, la sua Critica della ragion pura e l’epitaffio fatto da lui scolpire sulla sua lapide – “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” – si potrebbe menzionare san Tommaso d’Aquino, secondo cui “pensiero e ragione si possono conciliare, anzi, la ragione serve a pianificare alcuni enigmi della fede, anche se l’intelletto umano è limitato”. Lo scopo della fede e della ragione – aggiungeva “è lo stesso, se poi la ragione si trova in contrasto con la fede deve cedere a questa”. Ma forse più utile è prendere in mano quanto scriveva in pieno Novecento Pierre Lecomte du Noüy, il grande fisico francese a giudizio del quale proprio nei quanti e nella razionalità più pura si trova la prova dell’esistenza di Dio. Attraverso la storia dell’evoluzione dell’essere umano, scriveva Du Noüy, si giunge a una constatazione inevitabile: Dio esiste, e a dirlo è proprio la scienza”. In un secolo, non ci si può aspettare di vedere più di una o due volte un libro di una tale profondità e intelligenza”, commentava sbalordito il premio Nobel per la Fisica del 1923, Robert A. Millikan. Du Noüy non fa affidamento su sensazioni o cieca fede nel trascendente. Si basa sull’esperienza, sulla constatazione razionale. E’ la stessa visione logica della natura a condurre a Dio, scrive: “Lo scopo di questo libro è di esaminare criticamente il capitale scientifico accumulato dall’uomo e di trarne conseguenze logiche e razionali. Vedremo che queste conseguenze conducono inevitabilmente all’idea di Dio”.
Rileva che le spiegazioni esclusivamente materialistiche dell’Universo – per le quali prova una sana repulsione – non riescono a dare ragione di tutta la complessa ricchezza dell’essere umano. Ma il fisico non è uno sciocco, sa che non basta passare dall’Homo herectus all’uomo di oggi per dire che sì, non deriva tutto dallo scontro di molecole e dal Big Bang, e che c’è qualcosa di ultimo e indescrivibile che neppure Dante riuscì nella sua immaginazione sconfinata a rappresentare. “Non possiamo aspettarci, oggi, di distruggere l’ateismo usando gli argomenti sentimentali e tradizionali che potevano commuovere le masse ignoranti del passato. Non possiamo combattere i carri armati con la cavalleria o gli aerei con gli archi e le frecce. La scienza – dice lo scienziato – è stata usata per demolire le basi della religione: la scienza deve essere usata per consolidarle”. Premessa: Lecomte du Noüy non si rivolge ai credenti convinti, bensì a quanti hanno sentito “sorgere un dubbio” nella loro anima. Frase autobiografica, verrebbe da dire. Lui che, morendo nel 1947, confessò che la sua gioia più grande sarebbe stata quella di veder emancipati dall’ateismo gli scienziati, per “menarli a Dio”. La conclusione cui perviene lo scienziato è di illuminante chiarezza: “L’agnostico e l’ateo non sembrano minimamente disturbati dal fatto che tutto il nostro Universo, vivente, organizzato, diventa incomprensibile senza l’ipotesi di Dio”.
Se nello scrivere il libro, queste furono le intenzioni del fisico e biologo francese Pierre Lecomte du Nouÿ (1883–1947), uno dei più importanti scienziati francesi del Novecento, devo dire che, purtroppo, come tutti sappiamo, di buone intenzioni sono lastricate le strade che conducono all’inferno.
Il libro porta, guarda caso, la data del 1945, ma non ha perso la sua attualità. Lo scrisse quando scappò da Parigi, fuggendo dal suo “inferno”. Erano arrivati i nazisti. Devo riconoscere che questo libro l’ho letto e riletto con grande attenzione, riconoscendomi nelle intenzioni dell’autore. Ogni essere umano sembra essere destinato a vivere, in un modo o un altro, nel suo “inferno terreno”.
Per questa ragione, mi è capitato di fare la lettura impugnando la matita, riempendo le pagine di sottolineature, segni e interrogativi vari, come non ho mai fatto con i libri. Un modo come un altro, di volta in volta per difendermi o accusare, segnalare o cancellare, ricordare o dimenticare.
Un continuo andare avanti nella lettura, per poi ritornare indietro, per meglio comprendere quello che avevo mal capito, cambiando idea su quello che avevo letto. Insomma quando ti imbatti in una frase come questa: “la Morte è la più grande invenzione della Natura”, devi essere sicuro del contesto in cui viene pensata e scritta.
Entrambe le parole con la maiuscola. L’individuo effimero che si confronta con l’individuo psicologico di fronte al mistero della vita. Ho detto che il libro è stato scritto nel 1945 e mi sarebbe piaciuto che il suo fosse ancora vivo oggi a distanza di oltre mezzo secolo. Molta acqua è passata sotto i ponti della Natura e della Scienza. Gran parte degli interrogativi che l’uomo si pone sono ancora senza risposte.
Pierre Lecomte du Nouÿ riesce forse a dare una risposta alle prime quattro canoniche domande chi-cosa-quando-dove, ma non all’ultima e più importante “perchè” di tutta nostra incomprensibile ed insostenibile pesantezza dell’essere vivi.
Lui sostiene che solo Dio può darci una ragionevole risposta attraverso la scienza. Ma, alla fine, anche questa rimane incomprensibile se non riesce a rispondere al suo medesimo “perchè”. ( )