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Il principe. Testo a fronte in italiano moderno

di Niccolò Machiavelli

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Aggiunto di recente dahamburgerone, AntonioGallo

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Ci sono scrittori che sono diventati famosi non solo per i libri che hanno scritto e per il numero di lettori che riescono a mantenere col passare del tempo, ma anche per l’attualità che riescono a mantenere con la loro scrittura, con i simboli e con i valori attribuibili non solo alla loro arte ma anche al ruolo ed alla funzione che hanno avuto durante la loro vita. La continuità che scaturisce dalle loro opere, continua ad essere rilevante ed essenziale, li fa diventare dei veri e propri personaggi. E’ il caso di Niccolò Machiavelli, uno scrittore di cui si parla sempre non solo in quanto tale, per le sue opere, bensì anche e soprattutto per la sua vita, le sue idee politiche, la sua persistenza letteraria che sfida il tempo e ne fa un personaggio che emana un “fascino principesco”. Ho ritrovato per caso un vecchio numero del "Times Literary Supplement", (TLS) il noto settimanale letterario inglese al quale sono stato abbonato per anni. Oggi, in tempi di magra, ma tempi digitali, me lo leggo online, anche se solo in parte. Perché anche così il sapere si paga.

Era un lungo saggio con la recensione di un esperto di storia e cultura del rinascimento italiani, Lauro Martines, di ben sette libri sul grande scrittore fiorentino. Due nuove traduzioni del “Principe” in inglese, la traduzione sempre in inglese della “Vita di Castruccio Castracani”, un saggio sul “Principe”, e due biografie del Machiavelli. Ma chi era veramente Niccolò Machiavelli? Del grande fiorentino me ne sono occupato tempo fa su questo blog parlando del suo "sorriso". Grazie al vecchio numero del TLS, in questi tempi in cui la politica di questo nostro Bel Paese sembra ogni giorno anti-politica, ho la possibilità di far rivivere nella mia memoria alcune vicende della sua opera e della sua vita, alla luce delle miserie contemporanee. A leggere bene, si scopre che non c'è mai nulla di nuovo sotto il sole.

N. M. apparve sulla scena del mondo poco prima del 1500 in un momento di crisi crescente sia in Italia che nella sua nativa Firenze. Gli Sforza a Milano stavano per cadere. Venezia era instabile e perseguiva una politica dello sfascio. Roma e la Chiesa erano sotto il governo di Papa Alessandro VI, il suo nome vero era Rodrigo Borgia già abbastanza noto per la sua sfrontata corruzione. Firenze, dopo la cacciata dei Medici nel 1494 e a seguito della perdita della sua maggiore colonia, il porto di Pisa, faceva di tutto per sopravvivere come Repubblica. Su e giù per la penisola, da Napoli alle Alpi, governanti e governati si sentivano minacciati.

Lo shock degli eventi in atto si registra anche nelle idee che Machiavelli esprime. Gli scrittori e gli intellettuali del tempo stavano soffiando sul fuoco di cambiamenti circa l’antica idea di “fortuna”, una forza capace di creare e abbattere gli stati, i popoli, le città e gli individui. Il concetto era una testimonianza del fatto che la capacità di governare la propria esistenza era sfuggita dalle mani degli Italiani. La politica e la storia improvvisamente li colpì facendoli come cadere in uno stato di sonnolenza, preda di forze irrazionali. Gli onesti ed i buoni erano in grave pericolo. Lo stesso Machiavelli dava grande importanza all’impatto della “fortuna” nella vita dei popoli, non soltanto nel “Principe”, ma anche nei “Discorsi su Livio”, nei suoi versi e in tutti gli altri scritti.

Machiavelli si fa conoscere all’inizio come l’autore di due poesie sull’amore composte intorno all’anno 1492, forse in onore di Giuliano de’ Medici, uno dei figli di Lorenzo il Magnifico. Queste composizioni fanno capire il tipo di istruzione che aveva avuto, un cultura impregnata di latino e di classici, anche se aveva studiato nozioni rudimentali di commercio e contabilità. Per un giovane ambizioso di fare carriera nella Firenze rinascimentale, ciò che contava veramente era lo studio dei classici, specialmente quelli romani, i quali aprivano la strada alla carriera legale, alla politica e spalancavano le porte anche della Chiesa.

Figlio di un poco noto avvocato che si dilettava coi classici, Niccolò nacque da una antica famiglia fiorentina, ma è molto probabile che le sue origini fossero illegittime, in quanto i suoi congiunti non erano qualificati ad essere eletti in cariche pubbliche. Questa condizione era un handicap sia dal punto di vista sociale che economico. Senza avere il diritto di accesso alle cariche pubbliche della città, non si poteva essere cittadini politici a pieno titolo. Si era destinati ad avere un rango inferiore, si correvano forti rischi in un giudizio in tribunale, le porte erano chiuse per fare un matrimoni di prestigio, anche perché tutti i matrimoni di un certo prestigio erano oggetto di attente contrattazioni. Machiavelli non riuscì mai ad affrancarsi da questa condizione inferiore originaria e le conseguenze si sarebbero avvertite nel suo acceso repubblicanesimo, soprattutto nella ironica, comica ed amara visione delle cose del mondo che egli avrebbe sempre portato con sé.

Suo padre, più che col suo lavoro di legale, sostentava la famiglia con i proventi che gli venivano da una piccola proprietà terriera. Niccolò, anche per questa ragione, venne istruito privatamente, si ritenne sempre povero e di modesta condizione sociale. Se si leggono i “Ricordi” di suo padre, una specie di diario domestico, si può dire che egli sia cresciuto in un ambiente familiare impregnato di scetticismo. Infatti egli omette sistematicamente ogni riferimento religioso in occasioni in cui la religione aveva un suo ruolo, com’è il caso di nascite, matrimoni e decessi. Una certa sfiducia nei preti aleggia in quelle memorie di famiglia. Anche Firenze, come Bologna, era una delle città più ferocemente anticlericali, una città nella quale l’eminente politico Gino Capponi ammoniva i suoi figli a non mettersi con i preti perché essi “sono la schiuma della terra”.

Il contemporaneo di Machiavelli, il frate domenicano Savonarola, una volta così si espresse in un sermone rivolto ai suoi concittadini: “Volete fare del male a vostro figlio? Fatelo diventare prete!” Lorenzo il Magnifico nel 1480, mentre stava acquistando un cappello per suo figlio tredicenne Giovanni, disse che Roma e il suo clero erano come un pozzo nero. Non è difficile, allora, capire perché Niccolò Machiavelli e molti suoi concittadini guardavano alla Chiesa ed alla religione con un occhio a dir poco distaccato e critico.

Poco si sa, comunque, dei primi anni di vita di Niccolò, almeno fino al 1498 allorquando all’età di 29 anni viene nominato vice cancelliere della città, con un lauto stipendio. Questa carica includeva anche quella di primo segretario dei “Dieci di balìa”, il corpo di magistratura dai poteri dittatoriali che reggeva la città in momenti gravi e a tempo determinato. Questi incarichi gli diedero una sicurezza economica e gli venivano unicamente dalle sue capacità culturali oltre che da legami con persone all’interno delle istituzioni. Poteva così essere in contatto giornaliero con i più importanti politici della città, uomini astuti, abili, che viaggiavano molto, tutta gente abbondantemente titolata dal punto di vista accademico ed in grado di manovrare le dolcezze e le brutalità della politica che avevano luogo nella penisola italiana.

I più abili di essi erano stati ambasciatori nelle principali corti d’Europa e Niccolò potè ricevere il migliore addestramento possibile dal punto di vista diplomatico, senza dimenticare la sua passione per la storia antica, principalmente quella romana. Il suo amore per la politica lo portò ad avere quel ruolo politico non senza avere prima ascoltato alcuni dei famosi sermoni che il rivoluzionario Savonarola usava tenere in città. Appena tre settimane prima che fosse nominato nel suo incarico il frate, infatti, era stato giustiziato ed egli scrisse in proposito una brillante analisi politica su di lui.

Per più di 14 anni, quindi, Machiavelli, e precisamente dal 1498 al 1512, fu intimo con chi deteneva il potere, scrivendo lettere, relazioni e rapporti, facendo domande, osservando dal vivo situazioni importanti. Dopo il 1502 fu assistente del Capo dello Stato di Firenze, il Gonfaloniere di Giustizia Piero Sederini, e fu l’artefice delle formazione di una nuova milizia cittadina. Ebbe incarichi di missione diplomatica presso varie ambasciate in Francia, Germania, Roma, incontrò il Re Luigi XII di Francia, l’Imperatore Massimiliano e il discutibile Cesare Borgia.

Tutto ciò finì nell’autunno del 1512 quando un colpo di stato fece cadere la Repubblica Fiorentina e provocò il ritorno dei Medici. Niccolò venne licenziato, imprigionato, torturato, perdonato ed esiliato nonostante la sua apparente innocenza. Costretto a non occuparsi di politica per la quale nutriva un grande amore, fece la cosa migliore che potesse fare in quelle condizioni: cominciò a scrivere di politica. Nel 1513 scrisse l’opera che gli doveva dare la fama, “Il Principe”, dando inizio poi alla stesura dei “Discorsi su Livio”.

“Il Principe” è un’opera che si caratterizza per una sorta di energia demoniaca, un’opera proteiforme nel senso che le opinioni dello scrittore sono variabili, mutevoli, modificabili, gettano le basi per il potere del principe ed allo stesso tempo cercano di demistificarlo. Machiavelli con grande abilità fa e disfa i suoi insegnamenti, andando a visitare il campo dei nemici del principe, che è quello dei repubblicani. Le copie del libro cominciarono a circolare nel 1516 con la dedica a Lorenzo dei Medici il giovane nella speranza di nascondere le sue simpatie repubblicane allo stesso tempo, più tardi, grazie alla doppiezza del contenuto del libro, poter sostenere di avere scritto il libro sotto le mentite spoglie di repubblicano. In effetti, desideroso di ritornare al governo, egli scrisse il libro prevedendo una possibile ricompensa col ritorno dei Medici.

Se il libro è stato giudicato immorale agli occhi dei suoi contemporanei, e per diversi anni ancora dopo, è stato perché Machiavelli dice pane al pane e vino al vino. Nelle vesti di studioso del comportamento politico, aveva avuto modo di verificare che l’uso della forza, “faceva” sempre la ragione, che gli stati perseguivano i loro interessi più spietati, che i papi praticavano con leggerezza la violenza, che una giusta causa poteva sempre essere trovata per giustificare la violenza come espediente per la soluzione dei problemi, che l’ambizione, la vigliaccheria, l’ingratitudine e l’ingordigia fiorivano alla meglio in politica. Mettendo da parte la morale convenzionale, Machiavelli prese il toro per le corna e decise di elencare una serie di precetti pratici, così come li vedeva lui, sui quali potessero basarsi i principi per avere successo in politica. Il suo terreno era la prassi, non la teoria astratta, ricavata dagli ideali.

Qualsiasi traduttore che si accinge a tradurre “Il Principe” si confronta con una grande difficoltà non solo per la natura scivolosa e anticonvenzionale dell’opera, ma anche perché Machiavelli fu uno scrittore davvero eccezionale, in quanto prendeva la sue parole ed i suoi punti di vista da una grande quantità di attività come dalla politica caricandoli con la conoscenza della storia romana e del mondo antico. Inoltre, egli sapeva come immettere la sua immaginazione letteraria e il suo acuto senso narrativo nella concezione della politica e della storia. Ciò significa che il libro esercita sempre un forte fascino su ogni traduttore, seducendo le sue ambizioni. La cosa strana, comunque, è che anche se la lettura del “Principe” nel suo contesto storico non aiuta a gettare luce sulla comprensione dell’opera, la stessa sarà sempre letta più con un occhio al mondo del lettore che a quello dei giorni in cui Machiavelli visse ed operò. Ciò significa che il contesto del lettore avrà la meglio su quello dell’autore. Il che fa capire e spiega perché “Il Principe” è un’opera sempre moderna ed attuale, anche alla luce dei cambiamenti del mondo e della politica dovuti al tempo ed agli uomini.

(Traduzione e adattamento da: “Princely charm”, by Lauro Martines, TLS, September 2005)

N.B. & P. S. Questa traduzione in versione italiano moderna dovrebbe aiutare ogni Italiano degno di questo nome a capire davvero questo grande, grandissimo Italiano. ( )
  AntonioGallo | Sep 19, 2022 |
«Il Principe di Machiavelli è perlopiù letto come un manuale per tiranni e infatti il principe menzionato nel titolo viene di solito ritenuto un sinonimo del termine “tiranno”. Questa interpretazione si riscontra già nel Rinascimento. Ad esempio, il pensatore politico Giovanni Botero considerava il principe machiavelliano una personificazione del crudele tiranno descritto da Aristotele in un famoso capitolo della Politica. Accettare l’equazione fra principe e tiranno limita considerevolmente le possibilità interpretative degli studiosi quando confrontano il modo in cui la tirannide viene descritta nei Discorsi con la dottrina esposta nel Principe e poi tentano di riconciliare l’odio repubblicano della tirannide che anima i Discorsi con il suggerimento di comportarsi in modo tirannico nel Principe. Bisogna forse ipotizzare (come faceva Hans Baron) che Machiavelli abbia cambiato parere negli anni intercorsi fra la stesura del Principe e quella dei Discorsi? O era semplicemente un uomo cinico, disposto a scrivere qualsiasi cosa pur di ottenere un impiego, incurante di eventuali contraddizioni dal punto di vista ideologico? Oppure troviamo in lui il prototipo del moderno scienziato della politica (come sosteneva Friedrich Meinecke), il quale mette da parte i suoi rapporti con un determinato governo – qualunque esso sia – per analizzare in modo distaccato la natura del potere politico? Si tratta forse di una satira (come pensava Garrett Mattingly) oppure Il Principe è in realtà un tranello (secondo l’opinione del cardinale Reginald Pole) appositamente pensato per annientare tutti i potenti che provano a metterne in pratica gli insegnamenti? Non è che per caso Machiavelli intenda suscitare il ribrezzo degli altri repubblicani – e forse persino dei Medici, i quali potrebbero offrirgli un lavoro – mostrando loro il comportamento crudele e obbrobrioso necessario a imporre un nuovo principe in una città di tradizioni repubblicane? Come dimostrato da Robert Black e altri studiosi, simili interpretazioni sono smentite dalla coerenza che si riscontra fra Il Principe e i Discorsi sia dal punto di vista delle teorie politiche esposte sia per quanto riguarda i consigli forniti senza alcuna riflessione di ordine morale. Eppure, rimangono molte contraddizioni, in alcuni casi certamente dovute a incoerenze insite nel pensiero e nel linguaggio di Machiavelli. Di fronte a una situazione così dibattuta e complessa, gli storici non possono fare altro che essere cauti e umili nel decidere come muoversi. […]

Machiavelli propone qualcosa di completamente originale, un “modo” mai prima concepito né dai filosofi antichi né dai loro epigoni fino alla sua età; si tratta, insomma, di un percorso inesplorato, così come quello che egli traccia all’inizio dei Discorsi. Innanzitutto, a Machiavelli non interessa affatto se il suo principe risulti legittimato in base a un qualche criterio giuridico o morale. Lo immagina del tutto indipendente rispetto alla legge e non appena prende il potere in una città dotata di libere istituzioni, la prima cosa che deve fare è sopprimerle. Se a un popolo appena assoggettato da un nuovo principe si debba o meno permettere di vivere secondo le sue leggi tradizionali è una questione di pura convenienza, non di diritto. Per quanto concerne la legittimità morale, Machiavelli ammette che la reputazione di uomo virtuoso, onesto e pio può risultare utile per chi governa ma non sono aspetti come questi a dover dettare le sue scelte politiche. Il principe che egli propone non è, quindi, il tipico tiranno positivo, dal momento che – come affermano Senofonte e Aristotele – più virtuoso è il comportamento del principe, più il suo governo sarà non soltanto duraturo ma anche felice. Per Machiavelli tutto questo non è vero. È invece la logica della necessità a dover determinare le scelte politiche di chi governa e questo introduce un contesto totalmente diverso da quello delle leggi morali.

Educato dagli umanisti, il principe già sa come essere buono; ora bisogna che impari da Machiavelli come non essere buono. Può essere buono la maggior parte del tempo e il suo stato trarrà vantaggio dalla reputazione di uomo buono di cui egli gode, ma una politica determinata dal voler sempre essere buoni non può che fallire. Quando la necessità lo impone, egli deve essere pronto ad agire subito in modo violento e crudele: dirà menzogne, commetterà frodi, userà trucchi della peggior specie, andrà contro tutte le leggi possibili. In breve, a differenza di Simonide e Aristotele, nella sua veste di consigliere dei prìncipi Machiavelli raccomanda l’uso di tattiche da tiranno, se necessario. Dopo queste improvvise e ben calcolate manifestazioni di crudeltà – tese a scongiurare eventuali minacce al suo potere – il principe dovrebbe subito tornare a comportarsi nel modo ritenuto tradizionalmente idoneo alla sua condizione. Grazie a queste brevi e quasi impercettibili deviazioni dalla norma egli sarà temuto ma non odiato. Siccome è ancora al potere, gli altri hanno tutto l’interesse a mostrargli rispetto e la sua natura imprevedibile incuterà timore. Ciononostante, egli dovrà fare in modo di dare il più a lungo possibile l’immagine di un governo virtuoso. Come vedremo, comportarsi sempre in modo palesemente crudele è tanto pericoloso per il principe quanto comportarsi sempre bene.»

La rivoluzione machiavelliana del pensiero politico
«La nuova scienza politica di Machiavelli richiedeva che si mettessero da parte quelli che erano – secondo lui – i fuorvianti consigli forniti dalla politica della virtù, sostenuti sia dagli scrittori classici sia dalle più prestigiose autorità della sua epoca. Ciò significava mettere da parte gli insegnamenti di quei filosofi greci che gli umanisti si erano sforzati di assimilare con l’intenzione di infondere integrità morale nei cittadini e nei governanti. Le prossime pagine di questo capitolo si concentreranno sul significato della rivoluzione introdotta da Machiavelli nel pensiero politico, i cui effetti sono ancora visibili oggi fra noi.

Non v’è alcun dubbio che i consigli politici di Machiavelli fossero rivoluzionari. Prima di allora, era motivo di vergogna e quanto mai raro (almeno in ambito letterario) suggerire ai prìncipi di ricorrere a metodi immorali per restare al potere. I prìncipi e le città che si comportavano in modo contrario alla virtù o alla giustizia venivano condannati dai retori e dai filosofi; gli storici, dal canto loro, li additavano come esempi di chi si rovinava con le sue stesse mani. Persino un autore come Tucidide (col quale Machiavelli presenta notevoli affinità), dopo aver dimostrato di poter sviluppare quella che oggi definiremmo una visione disincantata del potere, non può – alla fine – fare a meno di condannarla in quanto psicologicamente ingenua e autodistruttiva. Dopo Machiavelli (e grazie alla sua diretta influenza) divenne comune – se non proprio rispettabile – raccomandare ai prìncipi l’uso di tattiche immorali, giustificandole come arcana imperii o tradizionali segreti dell’arte di governo. Al giorno d’oggi, molti ritengono ovvio e ormai acquisito che gli Stati – per proteggersi – debbano impiegare mezzi che sarebbero ritenuti immorali nei rapporti fra privati cittadini, tant’è vero che li si proibiscono per legge. Si discute se sia morale o meno ammettere lo spionaggio, la tortura, le operazioni dei servizi “deviati” (in altre parole, l’omicidio di Stato), le campagne di “disinformazione” (basate, cioè, sulla frode e l’inganno), i “danni collaterali” (ossia accettare la morte di civili innocenti) e la destabilizzazione di governi stranieri, ma tutto questo discuterne ha – in fin dei conti – mutato ben poco il comportamento dei governi (persino quelli democratici) o l’opinione pubblica. La tesi fondamentale di Machiavelli (ossia, non ci si può comportare sempre bene quando si è circondati da persone che si comportano male) è oggi ritenuta incontestabile. La maggior parte degli studiosi contemporanei non sembra rendersi conto che in passato sono esistite tradizioni morali secondo cui gli Stati dovevano agire in base agli stessi valori morali dei singoli individui. Solitamente, il realismo politico nelle relazioni internazionali viene contrapposto al liberalismo (il quale sottolinea il ruolo della collaborazione fra i vari paesi in base al reciproco interesse) oppure all’idealismo utopico (secondo cui la natura umana può diventare moralmente perfetta solo in uno Stato mondiale a sua volta perfetto, che si realizzerà “alle calende greche”). Molti “idealisti” di questo genere non ritengono contraddittorio – nel loro impegno in vista di uno Stato perfetto – ricorrere a una rivoluzione violenta, allo sterminio programmato di milioni di individui e a forme di oppressione che superano di gran lunga quanto mai immaginato dai tiranni antichi.

Non è casuale che lo stesso Machiavelli goda di così tanta ammirazione al giorno d’oggi e che il suo Principe sia stato più volte letto come una guida per politici ambiziosi, uomini d’affari e burocrati. Anche molti studiosi (già ammaliati da Nietzsche e Foucault) hanno subìto il fascino esercitato dal suo culto del potere. La tendenza machiavelliana a pontificare ha trovato un degno corrispettivo nella tendenza – purtroppo assai diffusa fra i suoi lettori – a considerarlo infallibile. A dire il vero, egli si dimostrò un profeta poco abile e su temi di fondamentale importanza previde l’esatto opposto di quanto poi avvenne. Ad esempio, Machiavelli profetizzò – ritenendolo inevitabile – il ritorno di Firenze a una forma di governo repubblicano, così come la liberazione dell’Italia dagli invasori stranieri entro breve tempo e gli insuccessi cui sarebbero andati incontro i cristiani nei loro tentativi di sottrarsi alla corrotta amministrazione ecclesiastica. Per un personaggio ritenuto solitamente fornito di straordinarie capacità di osservazione e analisi, risulta difficile spiegare come sia potuto vivere all’epoca della Riforma senza accorgersi che stava avvenendo proprio allora. Inoltre, Machiavelli criticava il cristianesimo accusandolo di infiacchire lo spirito militare esattamente quando si stava trasformando in un’ideologia imperialista che avrebbe portato al predominio europeo sulla scena mondiale. Col suo consueto tono dogmatico, nel Principe afferma che i sudditi di prìncipi ecclesiastici non riescono mai a liberarsi dei loro governanti; eppure, tre decenni dopo, un terzo dell’Europa si era sottratta al loro controllo. Il suo disprezzo nel condannare quella che ritiene la natura debole ed effeminata del cattolicesimo gli fa dimenticare che sin dal tardo XI secolo i papi avevano promosso le crociate, un fenomeno che avrebbe conseguito alcuni dei suoi più grandi successi proprio nel corso di quel Cinquecento in cui Machiavelli viveva. La maggior parte delle sue previsioni su come si sarebbero evolute le tattiche e le strategie militari si rivelò sbagliata. Anche la sua stessa carriera di consigliere politico fu ostacolata dalla costante incapacità a scegliere il candidato giusto a cui legarsi.

Machiavelli mirava a rompere l’incantesimo in cui la filosofia morale antica teneva intrappolata l’azione politica, ma la sua stessa opera ha dimostrato di saper ammaliare i lettori. La politica della virtù promossa da generazioni di umanisti (cominciando con Petrarca a metà Trecento per giungere poi a Patrizi sul finire del secolo successivo) può fornire quella drastica alternativa necessaria a rompere l’incantesimo esercitato dal realismo politico machiavelliano e – al tempo stesso – porre in maggior risalto i limiti della sua scienza politica. Se non altro, ricorderà ai moderni che sono esistiti (e possono ancora esistere) altri modi di immaginare cosa dovrebbe fare una guida politica e come dovrebbe agire uno Stato.»

tratto da La politica della virtù. Formare la persona e formare lo Stato nel Rinascimento italiano di James Hankins, traduzione e cura di Stefano U. Baldassarri e Donatella Downey, Viella
 
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Descrizione del libro
«… qui si veggono estraordinari sanza essemplo, condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna. Ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi».
Il Principe XXVI
«… qui si vedono eventi straordinari, senza precedenti, operati da Dio; il mare si è aperto; una nube ha mostrato il cammino; la pietra ha versato acque; qui è piovuta manna. Tutto è confluito nella vostra grandezza. Il resto lo dovete fare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non toglierci il libero arbitrio, e per non privarci in nulla di quella gloria che a noi spetta».
Il Principe XXVI
Chiosato, interpretato, adattato e spesso anche violentato, Il Principe ha troppo spesso finito per smarrire la propria fisionomia e assumere quella dei suoi ammiratori o detrattori. Questa edizione nasce precisamente dall’auspicio di favorire una nuova intimità con un grande classico più citato che letto, anzitutto giovandosi di una versione in italiano moderno appositamente realizzata da Carmine Donzelli. La traduzione accompagna, a fronte, il testo originale del Principe, mantenendo il procedere spezzato, le peculiarità e – diciamolo pure – la bellezza della prosa machiavelliana, ma al tempo stesso scioglie gli inevitabili ostacoli linguistici e permette di avvicinarsi al testo senza le consuete difficoltà della prima lettura. Alla traduzione di Donzelli si aggiungono un commento in nota e un’introduzione di Gabriele Pedullà, che, liberati del compito di spiegare la lingua e sciogliere il significato di un italiano che non ci è più familiare, seguono il filo delle teorie politiche e del retroterra storico e letterario del pensiero machiavelliano, illuminandone tutta la straordinaria forza concettuale e i legami con la cultura del tempo. Dalla sua prima uscita nel 2013, l’edizione Donzelli del Principe ha riscosso grandi consensi, e in molti hanno manifestato l’esigenza di una versione più agile, che riassumesse per un pubblico più ampio le acquisizioni spesso rivoluzionarie di quel primo commento. A questo preciso scopo – accanto a un’edizione del testo machiavelliano rinnovata e arricchita da un corposo apparato di note e da un ampio saggio introduttivo di Gabriele Pedullà, uscita anch’essa nel 2022 – con il presente volume si intende offrire una nuova stesura del commento e della traduzione, esplicitamente indirizzata agli studenti più giovani e a tutti i lettori comuni che desiderano confrontarsi con un classico quale Il Principe, ma che hanno anche timore di perdersi in un corredo di note troppo approfondito e minuzioso. In questa riformulazione più snella, il nuovo commento condensa le scoperte di una ricerca ventennale, consentendo a tutti di apprezzare le sfumature e i sottintesi del testo di Machiavelli, collocandolo nella cultura dell’epoca e al tempo stesso svelandone l’incredibile attualità.
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