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Sto caricando le informazioni... Il sergente nella neve (1953)di Mario Rigoni Stern
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Iscriviti per consentire a LibraryThing di scoprire se ti piacerà questo libro. Attualmente non vi sono conversazioni su questo libro. Ho potuto leggere questo libro, lasciatomi in eredità da mio padre, per cui per me, emotivamente, ha un valore enorme. Ma non solo perché mio padre lo avrà letto non so quanto volte ma perché mio padre ha in prima persona vissuto la ritirata in Russia, anche se in un’altra divisione. Ebbe la fortuna di poter torna "a baita" anche se con tre dita dei piedi congelate. Ho letto qui sotto commenti stupendi, per cui non aggiungo altro, vi trascrivo solo un tratto, secondo me il più significativo, che racchiude il senso e l'insegnamento che questo libro vuole darci, che non è solo una testimonianza, un resoconto di guerra ma molto più, ben sì un libro stracolmo di umanità. “Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mniè khocetsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco. Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.” Anabasi dall’inverno (inferno) di Russia Come non ripensare, leggendo questo libro, all’Anabasi senofontea, croce e delizia dei liceali classici di ogni tempo, archetipo narrativo di ogni ritirata militare dopo una disfatta? Ma qui non c’è il salvifico ‘Thalatta, thalatta!’ né il protagonismo tendente all’ egotico del comandante Senofonte. Qui c’è una vera e propria discesa agli inferi e la risalita solo per i pochi che sono riusciti, quasi miracolosamente, a farcela. E se la spedizione dei Diecimila è stata il frutto (forse) di un errore di valutazione da parte degli Spartani e in particolare di Lisandro, ma soprattutto l’esito della sfortuna (le cose avrebbero potuto andare diversamente se solo Ciro il giovane non fosse morto e se a Cunaxa la vittoria avesse arriso a lui invece che al fratello-rivale Artaserse), l’impresa di Russia – insieme alle Leggi Razziali una delle decisioni più nefande del Fascismo - era condannata in partenza. Una catastrofe annunciata eppure perseguita con pervicace e colpevole ottusità dal Regime. Questo libro è la cronaca della ritirata dal Don, delle indicibili fatiche che ha comportato e dei suoi costi umani. Il riferimento al Don, incredibilmente, è uno dei pochissimi dati geografici che si trovano nel testo. Come specifica l’autore (p. 63): “Noi non sapevamo nemmeno il nome del pese dove si trovava il nostro caposaldo ed è per questo che qui trovate solo nomi di alpini e di cose. Sapevamo solo che il fiume davanti al nostro caposaldo era il Don e che per arrivare a casa c’erano tanti e tanti chilometri e potevano essere mille o diecimila. E, quando era sereno, dove l’est e dove l’ovest. Di più niente.” Questo testo è stato scritto a caldo, lo si evince non solo dalle date in calce (gennaio 1944 - gennaio 1947), ma anche dalla lettura stessa. E l’immediatezza è il suo pregio maggiore. Non riesco a valutarne il valore letterario e non so nemmeno se sia corretto porsi questa domanda. Ciò che importa è il suo valore immenso di testimonianza a futura memoria, tanto più significativo oggi che le voci dei protagonisti stanno ormai tacendo a una a una. "Oggi, a quasi cinquant'anni dalla pubblicazione, questo celebre resoconto di un semplice sottoufficiale alpino che si trova a combattere nel settore centrale del fronte russo, proprio quando l'esercito dell'Unione Sovietica sferra il suo potente attacco demolitore, acquista rilievo speciale. Man mano che i fatti narrati si allontanano nel tempo, il diario del sergente diventa più intenso e assume i caratteri dell'esperienza perenne. La testimonianza scritta, rispetto agli eventi storico-geografici da cui è scaturita, intrattiene lo stesso rapporto che potremmo supporre fra la moneta e il suo conio." (Dalla postfazione di Eraldo Affinati). Avevo letto il libro da ragazzo e mi era piaciuto moltissimo. Riletto oggi, pur rilevandone lo spessore letterario, ritengo che l'opera sia diretta più ad un pubblico adolescente che ad un pubblico adulto. Una domanda però mi sorge spontanea: quanto l'opera abbia contribuito a costruire o alimentare il falso mito degli italiani brava gente. Non so rispondere ma tale falso mito ha contribuito grandemente ad impedire agli italiani di fare i conti con la storia. I soldati italiani, sostiene l'A. sono naturalmente di indole buona, tutti Dio, patria e famiglia. Ogni tanto qualche ufficiale adotta comportamenti eccentrici, sopra le righe. A questi comportamenti ed al comportamento degli alleati va attribuita la tutto sommato scarsa cattiva nomea che il soldato italiano si è fatta nelle guerre affrontate sempre obtorto collo. Il tutto in una steppa russa con villaggi e isbe ad ogni piè sospinto tanto da rammentare la Pianura Padana quanto a densità di abitazioni. Le Centomila Gavette Di Ghiaccio che vagavano per intere giornate nella steppa senza trovare un rifugio forse erano su un altro pianeta. nessuna recensione | aggiungi una recensione
Premi e riconoscimentiElenchi di rilievo
Mario Rigoni Stern was barely twenty-one and already a battle veteran at the time of the World War II disaster he describes in The Sergeant in the Snow. In July 1942 three divisions of Italian Alpini troops, specially trained for winter warfare, began retreating--entirely on foot, with no supplies, at temperatures of 30-40 degrees below zero. By the end of the march, 90,000 men were missing or dead and 45,000 frostbitten and wounded. Non sono state trovate descrizioni di biblioteche
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Google Books — Sto caricando le informazioni... GeneriSistema Decimale Melvil (DDC)853.914Literature Italian and related languages Italian fiction 1900- 20th Century 1945-1999Classificazione LCVotoMedia:
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Raramente mi è capitato di leggere memorie così intense, in ogni pagina si percepisce che il cuore del protagonista è ancora lì, in quel deserto bianco da cui molti compagni non hanno fatto ritorno; eppure lo stile è asciutto, privo di qualunque enfasi retorica: Rigoni non vuole stupire o commuovere ma solo condividere la sua esperienza e farsi testimone di una pagina di storia italiana che forse si preferirebbe dimenticare.
Aldilà della carica emotiva questo libro è importante anche come documento storico, perchè illustra con una chiarezza che nessun manuale potrebbe mai possedere le condizioni disastrose in cui versava l'esercito italiano: disarmati, affamati, con le scarpe ridotte a brandelli e costretti a ripiegare per chilometri e chilometri, incalzati dalle truppe sovietiche ma soprattutto dall'inverno, che in Russia non perdona.
Per me che capisco poco (e mi interesso ancora meno) di faccende belliche ogni tanto è stato dfficile orientarmi nel gergo militaresco, ed è stato anche più arduo tenere traccia di tutti i personaggi (a volte venivano introdotti con un paio di frasi e poi ripescati pagine e pagine dopo come se niente fosse), per cui ogni tanto mi sono sentita un po' spaesata; ma aldilà di questi piccoli difetti, penso sia un' opera fondamentale per conoscere meglio il nostro paese e che dovrebbe essere studiata nelle scuole. ( )