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L' anno della vittoria (1985)

di Mario Rigoni Stern

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Si tratta del secondo tassello della ‘Trilogia dell’Altipiano’ e raccoglie il testimone da ‘Storia di Tönle’ al quale è vicino dal punto di vista stilistico, ma ben diverso nell’andamento. I punti in comune sono l’Altopiano di Asiago – che dà il titolo alla mini-serie completata da ‘Le stagioni di Giacomo’ – e la Grande Guerra, ma è proprio la brutalità dei combattimenti che divide i due racconti: tanto gravi sono gli sconvolgimenti, geografici e psicologici, che sono intercorsi da non poter rendere conciliabili il ‘prima’ e il ‘dopo’. Non a caso, il percorso del primo volume va dalla vita alla morte e questo segue l’itinerario contrario: il mondo di Tönle è andato in pezzi e tocca alla famiglia di Matteo come ai suoi compaesani rimetterli insieme, ma la cesura resta intatta, rappresentata plasticamente dai centri abitati che rinascono basati su criteri e disposizioni radicalmente diversi da quelli rasi al suolo dalle cannonate. Inevitabile allora che alle aperture internazionali vissute dal protagonista del romanzo precedente, qui non ci si stacchi dalle radici che anzi bisogna ripiantare. Dopo il quattro novembre, gli abitanti dei Sette Comuni, sfollati nel pedemonte quando non più lontano in pianura, aspirano a tornare sulle loro terre: l’impatto iniziale è di infinito scoramento – non è rimasto più nulla oltre a trincee, acquartieramenti e morti, morti dappertutto – ma la voglia di reimpossessarsi della propria esistenza è più forte di tutto, inclusi gli inevitabili impicci burocratici dovuti soprattutto al disinteresse di politici e funzionari preoccupati più che altro di ottenere dividendi dalla ricostruzione. Siccome il conflitto ha sparpagliato gli uomini un po’ ovunque, il ritorno a casa dei reduci (fra i quali il padre di Matteo) è accompagnato dalle nuove idee di uguaglianza, sociale ed economica: una versione mite, seppur rafforzata dalla solidarietà delle comunità montane, che comunque il nascente fascismo si incarica di iniziare a estirpare. Nella sua lingua falsamente semplice – molte sfumature si colgono solo procedendo con lentezza e attenzione nella lettura – l’autore riesce a ricreare (rielaborando ricordi familiari o dei compaesani) con efficacia il piccolo mondo che stava rinascendo assieme ai suoi riti e alle sue abitudini cercando una propria dignità, malgrado la miseria sempre in agguato. Sono molti i passaggi poetici dedicati alle piccole cose o ai paesaggi che si trasformano con il passare delle stagioni, ma non da meno si rivelano quelli in cui lo scrittore esprime il suo profondo antimilitarismo: la strage insensata i cui frutti, i cadaveri, giacciono quando va bene sotto un sottile strato di terra, la distruzione della natura e in special modo del bosco, fonte di vita per i montanari; il poco rispetto per chi è sopravvissuto, costretto spesso a elemosinare quanto promesso durante la guerra o al momento dell’armistizio. Il libro è popolato da decine di personaggi che sanno essere vivi, seppur siano descritti a volte con pochi paragrafi: dal vecchio Tana al reduce meridionale inselvatichito sui monti, nessuno passa inosservato, incluso Carlo Rosselli nel ruolo di ‘special guest star’. Al termine dell’antifrastico ‘anno della vittoria’, dopo tanta morte arriva una nascita: importante dal punto di vista simbolico, ma forse ancor di più da quello artistico grazie alla bella scena di Matteo spedito a chiamare il dottore. ( )
  catcarlo | Jan 12, 2019 |
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