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Det första världskriget

di Thomas Kling

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Auch bei Kling, dem vormals stets vom "sprachverlust" bedrohten Mikrotechniker des Wortes, überrascht auf den ersten Blick die Wortgewaltigkeit, das Ausufernde der lyrischen Rede. Kaum eine Spur mehr, so scheint es, von der verbissenen Arbeit am Phonem, von der Reduktion auf die mikroskopischen Strukturen eines Textes wie seinerzeit noch in "morsch". Nur die typische Vokalelision bei nasalen Wortendungen, ehedem ein Signal für den chirurgischen Umgang Klings mit seinem Material, scheint als manieristischer Rest geblieben. Ansonsten erwecken die großen Zyklen dieses Bandes eher den Eindruck eines Hangs zum ausgreifenden Geschichtenerzählen. Aber der Schein trügt: Kling ist seinen Methoden und seiner Haltung treu geblieben. Das Narrative ist vorgeschoben, den Leser eine Weile in Sicherheit zu wiegen, nur um ihn dann umso mitleidloser darauf zu stoßen, daß hinter den Scheinerzählungen und Reportagen kein festes Kontinuum, kein durchgängig greifbarer Gedankengang existiert, an dem sich Halt finden ließe. Die Quantität der Wörter ist keine schiere Fülle, sondern Ausdruck einer gnadenlosen Freiheit der Fläche. Alles ist verfügbar, greifbar, montierbar -und auf horizontloser Fläche gleichwertig präsent. Diese überzeitliche Präsenz in der Montage bis in die kleinsten Verästelungen der Sprache hinein wirken zu lassen, darin besteht das verblüffende Können Klings. Daß aber hinter all dem manischen Benennen von Dingen und Evozieren der Bilder umso drohender die Angst vor dem Sprachverlust aufsteigt, macht die eigentlich ästhetische Qualität seiner Texte aus.
 
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