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L'altra India (2005)

di Amartya Sen

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India is a country with many distinct traditions, widely divergent customs, vastly different convictions, and a veritable feast of viewpoints. In The Argumentative Indian, Amartya Sen draws on a lifetime study of his country's history and culture to suggest the ways we must understand India today in the light of its rich, long argumentative tradition. The millenia-old texts and interpretations of Hindu, Buddhist, Jain, Muslim, agnostic, and atheistic Indian thought demonstrate, Sen reminds us, ancient and well-respected rules for conducting debates and disputations, and for appreciating not only the richness of India's diversity but its need for toleration. Though Westerners have often perceived India as a place of endless spirituality and unreasoning mysticism, he underlines its long tradition of skepticism and reasoning, not to mention its secular contributions to mathematics, astronomy, linguistics, medicine, and political economy.… (altro)
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Un aiuto concreto a capire la cultura e l'economia indiana ( )
  permario | Jan 8, 2016 |
Il libro di Sen, un intellettuale noto in tutto il mondo di origine indiana, premio Nobel per l’economia , ha come scopo principale quello di mostrare, fin dal titolo, che esiste un’altra India oltre quella esotica e misticheggiante che l’Occidente ha immaginato e rappresentato nel corso dei secoli, dall’antichità greca ai giorni nostri.
La questione è particolarmente rilevante perché oggi l’India non è più un paese qualunque, ma uno dei paesi emergenti nell’ambito della globalizzazione mondiale e , come accade per la Cina, tutto sommato resta un paese in gran parte sconosciuto a gran parte degli occidentali, anche colti.
Il limite del libro, va detto fin da subito, è che si tratta di una raccolta di articoli, pubblicati in occasioni e su riviste diverse, che non sviluppa in modo approfondito gli argomenti che propone; talvolta Sen dà per scontate molte cose, si limita a suggerire una molteplicità di esempi, ma in questo libro almeno, non arriva al fondo di alcune questioni importanti per il confronto interculturale e per una migliore conoscenza della cultura indiana. Forse il limite è che si occupa di troppo cose per un libro solo, l’India e la bomba atomica, la differenza tra le classi, Tagore e Gandhi, la differenza di genere, il laicismo indiano, l’India attraverso l’analisi dei suoi calendari, e così via elencando. Ma tra questo mare di temi, a me sembra che uno sia il più rilevante: riconoscere che la cultura indiana ha sviluppato indipendentemente dall’Occidente, forme di pensiero che sono alla base di una visione razionale e laica della realtà, accanto (a volte all’interno, in posizione marginale o eretica) alle religioni e alle innumerevoli tradizioni spirituali che da lì ci sono giunte. E questo tema è sviluppato soprattutto in due saggi: il primo, intitolato L’indiano che argomenta, e un altro Fin dove arriva la ragione. Vediamoli dunque.
Sen mostra che nei poemi epici sanscriti, Ramayana e Mahabharata, alle innumerevoli storie si intrecciano dialoghi che mostrano punti di vista opposti su questioni religiose, filosofiche e morali.
La più nota è forse la disputa tra Krishna (dio incarnato in un cocchiere) e Arjuna nella Bhagavad Gita, quando nel corso di una guerra, discutono da due punti di vista contrapposti il fondamento dell’azione morale: bisogna agire per compiere comunque il proprio dovere, oppure , come pensa Arjuna, l’importante è evitare le cattive conseguenze?
Questa disputa morale non è che uno degli innumerevoli esempi della presenza nella tradizione indiana, di dispute intellettuali pubbliche che mettono in scena posizioni contrapposte.
“La storia dell’argomentazione pubblica in India deve riconoscere particolari meriti ai primi buddisti, i quali avevao grande fiducia nella discussione come strumento del progresso sociale. Ne derivarono tra l’altro alcune delle prime assemblee generali aperte della storia: i cosiddetti concili buddisti, convocati per comporre dissensi tra i diversi punti di vista, attiravano delegati di località e scuole di pensiero diverse” (28). Ve ne furono alcuni particolarmente importanti: uno dopo la morte di gautama Buddha, l’altro un secolo dopo a Vaisali; ma il più famoso fu celebrato sotto il patronato dell’imperatore Ashoka nel III secolo a.C.
Ashoka, imperatore convertito al buddhismo, pubblicò editti in India che anticipavano le idee di tolleranza religiosa e servivano a contenere e a risolvere positivamente le dispute.
“E’ meritoria, diceva, la concordia, cioè il porgere orecchio, e volontariamente, alla legge di pietà accettata da altri” (34).
Superare l’egoismo non era solo questione personale, ma doveva diventare una consuetudine pubblica.
“Chi riverisce la propria setta e disprezza le altrui solo per attaccamento ad essa, in reltà infligge, con questa condotta, la più grave delle ferite alla propria parte” (31)
Oltre a questi esempi , Sen documenta la presenza di una lunga tradizione argomentativa in India in correnti eterodosse, ma non solo.
Il “canto della creazione” nei Veda termina con dubbi radicali:
“Chi sa realmente? Chi lo proclamerà qui? Da che fu prodotto? Da che questa creazione? Più tardi vennero gli dei, con la creazione di questo universo. Chi sa dunque, da dove esso è sorto?” (35).
Esistono poi correnti scettiche, come la filosofia Lokayata, fiorita nel I millennio avanti C. che univa scetticismo e materialismo. Ateismo e materialismo sono asse portante della corrente Carvaka che fu rappresentata anche nei dialoghi interreligiosi organizzati alla fine del Cinquecento dall’imperatore Akbar.
La tesi decisiva di sen è che questa tradizione argomentativi pubblica indiana è stato uno dei fondamenti della democrazia e del laicismo dello stato indiano il quale, sebbene oggi sotto forte attacco, non deriva esclusivamente dal sistema democratico inglese.
Nel secondo saggio, Sen parte da Akbar , l’imperatore Moghul dell’India alla fine del Cinquecento (secondo il nostro calendario) aveva già posto le basi per la laicità dello stato e per quella che in termini odierni chiameremmo coesistenza pacifica di una comunità multiculturale. Forse sorprendentemente per noi, Akbar affermava mezzo millennio fa, che il modo giusto per affrontare problemi etici e sociali fosse “la pratica della ragione” e non l’affidamento a una qualsivoglia tradizione religiosa. Inoltre pensava che lo stato dovesse garantire la laicità, in modo che “nessuno fosse inquietato a causa della religione e a ognuno fosse concesso di passare a quella fede che più gli piacesse”. Bisogna ricordare che negli stessi anni in Europa infuriavano le guerre di religione, e in particolare in Francia ugonotti e cattolici si massacravano senza risparmio.
Ancora Akbar diceva: “La pratica della ragione e il rifiuto dle tradizionalismo sono così luminosamente chiari da non aver bisogno di argomenti. Se avesse ragione il tradizionalismo, i profeti avrebbero semplicemente seguito i propri antenati (e non avrebbero portato nuovi messaggi)” (288). E ancora:
“Non possiamo respingere una pratica che è stata adottata dagli abitanti del mondo, solo perché non la troviamo nei nostri libri. Altrimenti, come progrediremmo?” (291)
Tuttavia si continua spesso a sostenere che tolleranza e libertà di coscienza siano principi limitati alla “civiltà” occidentale; che le civiltà non occidentali sono lontane da quella che chiamiamo razionalità occidentale (con la sua tradizione di ragionamento analitico e di scetticismo); non solo alcuni sostengono una sostanziale incommensurabilità delle culture che non può risolversi se non come una guerra tra culture e civiltà. Dove possa portare tutto questo è sotto i nostri occhi quotidianamente: la tesi dell’incommensurabilità tra culture e della superiorità della cultura occidentale stanno espandendosi.
“Una conseguenza del dominio occidentale nel mondo d’oggi è che le altre culture e tradizioni vengono spesso individuate e definite per contrasto con quelle dell’Occidente contemporaneo. Così le culture diverse sono interpretate in modo da rafforzare il convincimento politico che quella occidentale sia in qualche modo la principale (e forse l’unica) fonte dei principi razionalistici e liberali, principi che comprendono l’esame analitico, il dibattito aperto, la tolleranza politica e l’accettazione del dissenso” (285)
Prendiamo ad esempio la libertà, esaltata come parto del liberalismo occidentale. Qui Sen mostra come si possano trovare difese della libertà e della tolleranza anche in autori non occidentali. “L’imperatore Ashoka nel III sec. A.C. ricoprì il paese di tavolette (gli editti) di pietra in cui si parlava di buon comportamento e saggio governo e si rivendicavano certe libertà fondamentali. Ashoka non escluse nemmeno le donne e gli schiavi, come invece fece Aristotele, anzi insisteva che di questi diritti doveva godere anche la gente della foresta che abitava in comunità preagricole lontanissime dalle città(…)” (284)
Il punto è che la cultura non è un monolite, e conoscere una cultura non vuol dire limitarsi a conoscere il mainstream. E’ questione di conoscenza e di ignoranza. L’India, ci ricorda Sen, ha “un corpus di letteratura ateistica e agnostica più grande di qualsiasi altra tradzizione classica. Anche le opere indiane di argomento non religioso, dalla matematica, l’epistemologia e la scienza naturale, fino all’economia e alla linguistica sono pressoché ignorate” (285)
Dipende da cosa si sceglie di leggere all’interno di una cultura; certo Platone , che è quasi unanimemente considerato uno degli iniziatori della razionalità occidentale, non può certo essere considerato precursore della tradizione liberale, come pure Agostino. E questo è assai rilevante anche per la questione del “canone” tanto dibattuta negli Usa. “Di fronte alla proposta molto dibattuta nelle università americane di limitare le letture di base ai grandi libri dell’Occidente, Akbar ci suggerirebbe che la debolezza decisiva di questa proposta non è nel fatto che gli studenti di altra origine potrebbero sentirsi in diritto di non leggere i classici occidentali, ma che costringere le proprie letture ai libri di una solo civiltà, riduce la nostra libertà di conoscere e di scegliere tra idee appartenenti a culture diverse”. (289) Ma questo non è accettabile per i paladini dello scontro tra civiltà: ciascuno resti legato alla propria, se non vuole essere travolto nella guerra totale, se non vuole perdere la propria identità, come se l’identità fosse qualcosa di monolitico, deciso una volta per tutte dal luogo e dalla famiglia , dalla cultura in cui si è nati.
“Akbar si sarebbe opposto a questa idea che la propria identità sia una cosa che una persona scopre, ma non determina; avrebbe sstenuto che in realtà noi possiamo scegliere che cosa credere, con chi associarci, quali atteggiamenti assumere, e che dobbiamo prenderci la responsabilità di ciò che, sia pure implicitamente, scegliamo” (289)
  pauleluard | Jun 15, 2008 |
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India is a country with many distinct traditions, widely divergent customs, vastly different convictions, and a veritable feast of viewpoints. In The Argumentative Indian, Amartya Sen draws on a lifetime study of his country's history and culture to suggest the ways we must understand India today in the light of its rich, long argumentative tradition. The millenia-old texts and interpretations of Hindu, Buddhist, Jain, Muslim, agnostic, and atheistic Indian thought demonstrate, Sen reminds us, ancient and well-respected rules for conducting debates and disputations, and for appreciating not only the richness of India's diversity but its need for toleration. Though Westerners have often perceived India as a place of endless spirituality and unreasoning mysticism, he underlines its long tradition of skepticism and reasoning, not to mention its secular contributions to mathematics, astronomy, linguistics, medicine, and political economy.

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