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Sto caricando le informazioni... Stanotte la libertà (1976)di Larry Collins, Dominique Lapierre
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A detailed narrative of the thirteen months leading to the independence of the Indian subcontinent in February 1948, centering on major and minor figures and on the social and personal upheavals attendant on independence and partition. Non sono state trovate descrizioni di biblioteche |
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Google Books — Sto caricando le informazioni... GeneriSistema Decimale Melvil (DDC)954.04History and Geography Asia India and South Asia 1947–1971Classificazione LCVotoMedia:
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Quella notte d'agosto il primo Primo Ministro indiano, Jawaharlal Nehru, annunciò l'apoteosi della sua nazione: “Molti anni fa abbiamo fatto un incontro con il destino, e ora arriva il momento in cui manterremo la nostra promessa. A mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si risveglierà alla vita e alla libertà”
A raccontare tutto ciò, ed a farlo in modo magistrale, sono il rodato duo francese Dominique Lapierre e Larry Collins, navigati giornalisti d’inchiesta noti al grande pubblico per libri quali “Gerusalemme! Gerusalemme!” o “Parigi brucia”. Quattro anni di ricerche, 250 mila chilometri percorsi, senza disdegnare cavallo ed elefante, oltre seimila pagine di testimonianze originali e più di diecimila documenti di archivio, cui si sommano migliaia di fotografie, registrazioni audio e video, tutto ciò per mettere nero su bianco questo “Stanotte la libertà” (Mondadori, 1975, traduzione di Francesco Saba Sardi). Un libro e un racconto che si distinguono per l’accuratezza con cui l’impianto narrativo, che è poi anche quello storico e della cronaca, è stato costruito.
Parliamo di un’opera densa, di oltre 500 pagine, il cui stile tra romanzo e inchiesta giornalistica lo rende assai più agile e dinamico di un saggio classico. Gli eventi, i personaggi, piccoli o “grandi” che siano, hanno il sopravvento e come attori circondati da migliaia di comparse riempiono, talvolta saturano, la scena. Ciò per dire che il vero protagonista resta il racconto dei fatti che, anche ove emerge l’incomprensibile crudeltà degli eventi, non si trasforma mai in una lamentazione per una parte o per l’altra (pur nascondendo tra le pieghe qualche inevitabile preconcetto), discreto esempio di equilibrio già dimostrato da Larry Collins e Dominique Lapierre nel narrarci della liberazione di Parigi e dell'assedio di Gerusalemme. Gli autori, secondo le parole spese all’uscita del libro nel 1975, “hanno ricreato i giorni tumultuosi in cui un subcontinente e i suoi 400 milioni di abitanti divennero liberi, solo per scoprire che il prezzo della loro libertà era la spartizione del loro Paese, la guerra, le rivolte e l'omicidio”.
Questo libro condensa dunque gli eventi che portarono alla rapidissima disintegrazione nel 1947 di quello che gli inglesi amavano definire il “più grande gioiello della Corona”: l’India. Un’operazione complessa, di straordinaria difficoltà e talvolta di crudeltà, ma che ha sottratto al volere di Dio, o meglio al potere politico di chi in nome di qualsivoglia divinità avrebbe voluto un paese tutto per se, affidandolo a due uomini, Sir Stafford Cripps e Lord Mountbatten, gli artefici della divisione del Paese e forse anche dell’inizio di quel progressivo ed inevitabile sgretolamento di un’epoca, quella coloniale, governata da inglesi, francesi, olandesi e portoghesi.
“Stanotte la libertà” è la testimonianza delle tribolate negoziazioni che portarono a quella storica mezzanotte in cui tutto finiva e tutto iniziava. La narrazione dell’interminabile disputa tra musulmani e indù, tanto emotiva quanto politica. Con pagine pregne del carisma di Gandhi e della logica di Nehru, pagine che si affollano nei momenti più drammatici della narrazione fondendosi quasi nella mobilitazione di milioni di persone che sposarono il satyagraha (la resistenza passiva) o raccogliendo tra le righe le tensioni politiche che contrapponevano il Partito del Congresso del Mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru alla Lega Musulmana di Mohammed Ali Jinnah che chiedeva inflessibilmente la nascita dello Stato teocratico, islamico e separatista del Pakistan. Tensioni che, una volta non più stemperate dalle forze dell’Impero, provocarono la migrazione di massa di qualcosa come quasi 17 milioni di persone e generarono terribili violenze, che avrebbero causato circa un milione di morti. La frettolosa divisione lasciò 44 milioni di musulmani nell’Unione indiana, causò innumerevoli reciproche carneficine, la prima delle tre guerre indo-pakistane per il Kashmir (1947- 48) e indirettamente l’assassinio di Gandhi, da parte di un fanatico indù, nel gennaio 1948.
Nella storia che Lapierre e Collins ci raccontano ci sono treni e convogli carichi di famiglie, uomini, donne, anziani, bambini che, in base ad una linea tracciata sulla mappa e in funzione dell'appartenenza religiosa, dovettero lasciare le loro case e migrare altrove scegliendo tra l’India e il Pakistan (due Pakistan in verità, occidentale e orientale, prima che uno diventi il Bangladesh un ventennio dopo). Carovane che erano assaltate, massacrate, da una parte e dall’altra, dimenticando la misericordia di qualsiasi dio potesse essere in cielo. Persone che avrebbero formato nuove comunità dentro nuovi confini, lasciando da un lato le coltivazioni, dall’altro le fabbriche per la lavorazione delle colture. L’imponente migrazione di massa di quel periodo è oggi ricordata come una delle più grandi del ventesimo secolo.
Nello stile che li contraddistingue, talvolta eccedendo nell’uso di uno stile ornato, denso di aggettivi enfatici che emergono in modo cadenzato con una certa ripetitività (non sempre empatica), quasi non bastasse il dramma raccontato a disturbare la nostra sensibilità, gli autori hanno tuttavia la capacità di mostrarci gli eventi come in un film, scena dopo scena, in un impeccabile il lavoro di sceneggiatura da fiction piuttosto che documentaristica, a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, alcuni dei quali monumenti della storia come Gandhi o protagonisti indiscussi degli accadimenti, come Lord Mountbatten, ai cui diari personali hanno sapiente attinto a quattro mani. Poco importa se, di tanto in tanto, la camera si sposta ad inquadrare, rallentando l’azione, i dettagli degli abiti, degli oggetti, dei gesti, quasi a volerci distrarre dalla complessità del pensiero indiano o dal dramma in corso. Vorrà dire che ne approfitteremo per prendere fiato, per guardarci intorno. Ed anche per sollevare qualche perplessità su alcuni parallelismi geografici e paesaggistici che, per chi come me ha viaggiato in India, paiono a volte non esattamente coerenti alla realtà. Ma si sa, talvolta l’enfasi narrativa cerca di ammorbidire la crudezza della cronaca e qualcosa si deve sacrificare.
Qualche pregiudizio emerge, è indubbio. Così come è inevitabile dovendo affrontare chi scrive un evento di tale portata sociale e complessità politica e religiosa. Tra le righe si materializza, ad esempio, l’idea di una élite politica indiana inadeguata nella gestione della transizione verso l'indipendenza del proprio Paese, ma resta tuttavia un pensiero, poca cosa senza prove tangibili circa al fatto che la contingenza storica avrebbe consentito scenari e risultati differenti. C’è poi il limite offerto da una visione tutta occidentale dello scenario raccontato, punto di vista che in qualche modo sfuma il concetto orientale di rispetto ai secolari dogmi culturali, così come alla complessità della psicologia religiosa e del misticismo indiano (ben esplicitato in libri come “Da parte della principessa morta” di Kenizé Mourad), tutti fattori che portarono a cruenti contrasti tra le comunità e che fecero da leva alla spartizione dell’impero da parte degli inglesi. Detto ciò, resta fuori discussione che la forza travolgente della narrativa epica del duo francese riduce tali pregiudizi ad una questione marginale del dibattito accademico e nulla toglie alla godibilità della lettura. ( )