Generalmente quando ci accostiamo a libri considerati “classici”, rischiamo di cadere in uno o l’altro di due atteggiamenti opposti ma ugualmente pericolosi. O la denigrazione sistematica, tipica dei giovani “rivoluzionari”, o il sistematico rispetto, che accomuna gli accademici “conservatori” (per i libri dei contemporanei in genere tutti preferiscono il silenzio…). Eppure, anche giganti come Shakespeare o Goethe o Dante o, appunto, Miguel de Cervantes (1547-1616), nei loro capolavori non sono esenti da pecche, leggerezze, parti mediocri e pagine infelici… Compito del vero lettore è affrontare le grandi opere – senza le quali comunque la letteratura universale è inimmaginabile – sapendo distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi. È quello che fa, senza timori reverenziali e con eleganza critica, lo scrittore francese Henry de Montherlant (1896-1972) in un breve ma denso testo, scritto nel 1961 come “Prefazione” al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes e oggi tradotto per la prima volta in italiano.
Henry de Montherlant (1895-1972) è tra gli scrittori francesi più grandi del ‘900. Il ciclo de Les Jeunes Filles (1936-1939), Il Caos e la Notte (1963) e alcune opere teatrali come Malatesta (1946) e Port-Royal (1954) gli garantiscono la statura del “classico. Fu accusato di collaborazionismo “morale” con il regime filotedesco di Vichy e nel 1945, finita la guerra, gli fu imposto di non pubblicare per sei mesi. Morì suicida.
Giusto è invece uno sguardo irriverente, cioè privo di soggezione e di preconcetti, capace di pronunciarsi in maniera equanime e senza paura su opere ritenute intoccabili. Montherlant - in una prefazione del 1961 per un'edizione francese del grande romanzo spagnolo - applica un simile sguardo al Don Chisciotte di Cervantes: ne riconosce i pregi, non ne nasconde i difetti, e mica piccoli: logorrea, mancanza di verità umana, inverosimiglianza E accusa Cervantes, il coraggioso combattente di Lepanto, di non aver avuto il coraggio di dire quanto aveva ragione Don Chisciotte a opporsi ai vessilliferi della volgarità e della mediocrità in nome del sogno. Don Chisciotte è il patrono dei disadattati ma anche degli utopisti generosi, come ben vide Turgeniev quando lo oppose al dubitante e nichilista Amleto. L'irriverenza letteraria ha una storia antica: Orazio osò scrivere che «quandoque bonus dormitat Homerus», insomma, il buon Omero a volte sonnecchia. Omero, capite? E se sonnecchia lui, figuratevi in che sonni profondi possono cadere gli altri. Voltaire dette una proverbiale definizione di Shakespeare, «un barbaro non privo di ingegno». L'ormai settantenne Tolstoi denunciò zone d'ombra in Goethe, Shakespeare e persino in Dante.
Ai nostri tempi l'irriverenza, come la libertà di giudizio, latita. Si passa dall'accettazione aprioristica di un canone, o di una moda, alla demolizione generica di tutta la tradizione nel fenomeno mai abbastanza irriso della cancel culture. Chi avrà il coraggio di dire un basta sprezzante alle imbecillità che arrivano dalle università americane? E chi di affermare che la triade Proust, Joyce, Kafka non è un dogma come la Santissima Trinità? Chi oserà notare che Philip Roth è grande nel Lamento di Portnoy, ma modesto e un po' lugubre nei suoi ultimi libri? Quanto mi sono divertito, io goethiano da sempre, quando ho conosciuto Stephen Vizinczey e ho letto il suo attacco canagliesco a Goethe in I dieci comandamenti di uno scrittore. E quanto mi diverto ancora a rileggere Max e i fagociti bianchi dove Henry Miller definisce «universo della morte» il canone novecentesco, che darebbe tutto per una sola pagina di Rimbaud! L'irriverenza è sempre benvenuta. E ora, ci sarà da rileggere Don Chisciotte e vedere quanto l'aristocratico, anarchico, eroico lottatore Montherlant aveva ragione scrivendo queste pagine «contro».