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Mah, sono perplessa. Il libro in sé non è male, si legge bene, però alla fine mi ha lasciata sconcertata perché sembra non voler arrivare a nessuna conclusione, in quanto resta tutto più meno o sospeso e poco chiaro, perché, se la volontà era scandagliare i sentimenti e il disorientamento della protagonista e quello che si nasconde nel suo animo, non mi sembra che questo obiettivo sia da considerarsi pienamente raggiunto. Scritto come fosse un dialogo interiore, a volte sembra quasi solo sfiorare le vicende che vedono la protagonista direttamente coinvolta e che, alla fine, risultano trattate in modo quasi marginale lasciando addosso un senso di incompiutezza e sospensione. Le insidie che possono nascondersi dietro le parole e la loro interpretazione nelle diverse lingue e di conseguenza le difficoltà che possono insorgere nel lavoro di un interprete era ciò che mi ha spinto alla lettura di questo libro e trovarle, poi, sposate all’ambiguità di certi personaggi mi ha coinvolto ancor più nella lettura, ma il brusco chiudersi della vicenda senza che sia data una seppur minima logica spiegazione mi ha lasciata insoddisfatta e distante. Una protagonista che non sono riuscita a capire appieno, che cerca una sua dimensione ma che sembra subire quasi passivamente gli eventi e le persone che la circondano quasi fosse in balia delle decisioni altrui. A differenza di quanto espresso da altri non mi sembra possa essere considerato un libro maturo, manca di una certa profondità e, soprattutto, di completezza. Molto buoni stile e scrittura che non mancano di quella fluidità che accompagnano comunque quella che considero nel complesso una buona lettura. Effettive tre stelle e mezzo. ( )
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Trasferirsi in un paese nuovo non è mai semplice, ma a dire la verità ero felice di aver lasciato New York.
Citazioni
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Quasi tutti miei colleghi avevano vissuto in vari paesi ed erano cosmopoliti di natura, la loro identità inscindibile dalle loro risorse linguistiche. Io non ero molto diversa. Ero fluente in inglese e giapponese per nascita, grazie ai miei genitori, e in francese grazie all'infanzia trascorsa a Parigi. [...] Ma la fluidità era soltanto la base di qualsiasi lavoro d'interpretariato, che richiedeva soprattutto un'estrema precisione, e spesso pensavo che a rendermi una brava interprete fosse la mia naturale inclinazione verso quest'ultima, più che un talento per le lingue. In un contesto legale la precisione era ancora più importante, e dopo una settimana di lavoro alla Corte devo imparato il suo vocabolario al tempo stesso specifico e arcano, con terminologia ufficiale fissata per ogni lingua e scrupolosamente osservata da tutti gli interpreti. Il motivo era ovvio: tra le nostre parole, o tra due o più lingue, sono in agguato voragini che possono spalancarsi senza preavviso. In quanto interpreti, il nostro compito era gettare ponti attraverso le voragini. Questa navigazione - che oltre all'accuratezza richiedeva un certo grado di innata spontaneità, perché a volte bisognava improvvisare per aggirare una frase sconosciuta o intraducibile, in perenne lotta con l'orologio - era più importante di quanto potesse apparire. [...]Chi andava alla sbarra presentava vari tipi di immagine: le testimonianze venivano pesantemente plasmate sia dalla difesa sia dall'accusa, le persone condotte davanti alla Corte per interpretare un ruolo. La Corte funzionava in base alla sospensione dell'incredulità: in aula, tutti sapevano e al contempo ignoravano che i testimoni erano preparati, che c'era un bel po' di artificio introno a questioni basate sull'autenticità. Era in gioco nientemeno che la sofferenza di milioni di persone, e davanti alla sofferenza non si poteva parlare di messinscena. Eppure, la Corte era per natura un luogo di grande teatralità. Non solo nelle testimonianze accuratamente forgiate delle vittime. [...] Anche gli imputati - capi militari e politici - erano spesso personaggi pomposi, arroganti e insieme autocommiserativi, gente abituata a stare su un palco e ad ascoltare il suono della propria voce. Gli interpreti non potevano rifuggire del tutto quel teatro, il nostro lavoro non consisteva solo nel tradurre le parole pronunciate dal soggetto, ma anche nel rendere l'atteggiamento, le sfumature e le intenzioni sottostanti. [...]L'accuratezza linguistica non bastava. L'interpretariato era una questione di enorme sottigliezza, un termine dalle molte sfumature: anche un attore interpreta un ruolo, e un musicista interpreta un pezzo musicale. C'era un certo grado di tensione intrinseco alla Corte e alle sue attività, una contraddizione tra la natura intima del dolore e l'arena pubblica in cui veniva sbandierato.Un processo er un completo insieme di performance che ci coinvolgeva tutti, nessuno escluso. Un interprete non doveva solo dichiarare o tradurre, ma anche ripetere l'indicibile. Forse er quella, la vera ansia che aleggiava nella Corte e tra i miei colleghi. Il fatto che la nostra attività quotidiana dipendesse dalla continua descrizione - descrizione, elaborazione e precisazione - di faccende che, fuori dalla Corte, erano in genere soggette a eufemismi ed elisioni.
I luoghi hanno un che di bizzarro quando se ne capisce la lingua solo in parte, e in quei primi mesi la sensazione era stata particolarmente strana. All'inizio brancolavo nel buio, i discorsi introno a me erano impenetrabili, ma tutto era diventato meno sfuggente quando avevo cominciato a capire le singole parole, poi le frasi e adesso perfino interi brani di conversazione, certe volte mi imbattevo in situazioni più private di quanto avrei voluto, la città non era più il luogo innocente che era sta al mio arrivo.
Era facile scordarsi che L'Aja si trova sul mare del Nord, per tanti è una città che sembra affacciarsi verso l'interno, dando le spalle alla distesa d'acqua.
[L'imputato] Era un ex capo milizia ancora giovane, con un abito costoso, stravaccato su una sedia ergonomica tra i vari giudici e avvocati. Era sotto processo per crimini orrendi, eppure in aula aveva sempre l'aria imbronciata e forse un poi annoiata. Certo, gli imputati sono speso ben vestiti e seduti su sedie da ufficio; la differenza sta nel fatto che alla Corte gli imputati non erano semplici criminali abbigliati per l'occasione, ma uomini che avevano a lungo indossato il mantello dell'autorità trasmesso da un completo o da un'uniforme, uomini abituati al potere che ne derivava. [...] Gli imputati, quindi, arrivavano, all'Aja circondati da una certa aura, avevamo sentito un gran parlare di questi uomini (perché erano quasi sempre uomini), avevamo visto fotografie e video, e quando finalmente si presentavano alla Corte erano le star dello spettacolo, non c'era altro modo di dirlo, la situazione era un palcoscenico per loro carisma.
Tutti hanno diritto a una giusta rappresentanza legale, anche chi ha commesso crimini indicibili, oltre ogni immaginazione, crimini che a sentire descrivere ti verrebbe voglia di tapparti le orecchie e correre via. L'avvocato difensore non può cedere a una simile vigliaccheria, deve non solo ascoltare, ma studiare con attenzione la storia di quei crimini, viverne e respirarne l'atmosfera. Quello che il resto di noi non è in grado di sopportare è proprio ciò in cui l'avvocato difensore deve immergersi.
Un'apparenza di semplicità è una cosa, la semplicità un'altra, lo sapevo.
Per un attimo, io e Jana lo osservammo servire il cibo. Eravamo diventate due donne in contemplazione della bravura di un uomo, una situazione assurda e raggelante.
Se si possiede una casa, la percezione delle cose cambia, che lo si voglia o meno. Basta anche solo avere un piccolo appartamento e il gioco è fatto, si è contagiati, c'è una differenza tra vivere nella teoria e vivere nella pratica.
Ma nessuno di noi è davvero in grado di vedere in che mondo viviamo. Questo mondo, situato nella contraddizione tra la sua ordinarietà (il muro tozzo del centro di detenzione, l'autobus che corre lungo il solito percorso) e i suoi estremi (la cella e l'uomo dentro la cella), è qualcosa che vediamo solo per poco e che poi non vediamo più per lungo tempo, per non dire mai. È sorprendentemente facile dimenticare le cose cui assistiamo, orrende immagini o voci che dicono l'indicibile; per esistere dobbiamo dimenticare, e lo facciamo, e viviamo in uno stato di so ma non so.
[...] mi venne in mente che Adriaan sapeva molto poco del mio lavoro, e delle parti della mia vita che non condivideva con me. In effetti, Kees avrebbe comparso molto meglio di lui il mio quotidiano; se a quella festa gli avessi detto che lavoravo alla Corte, probabilmente avremmo avuto una conversazione molto diversa, mi sarebbe sembrato un uomo intelligente e informato, esperto di un mondo dove io stavo appena entrando. A quel punto, forse, sarei stata più disponibile alle sue avance, magari avrei preso il suo numero o sarei andata a casa sua, invece che da Adriaan. Era un pensiero inquietante - che le nostre identità, e quindi il corso della nostra vita, potessero essere così mutevoli. Mentre fissavo Kees, quella versione alternativa degli eventi sembrò vibrare nell'aria tra noi.
Ecco perché trovava calmante la mia presenza. Non perché avesse bisogno di me come interprete, e nemmeno perché fossi una divertente distrazione, ma perché* desiderava qualcuno che lo accompagnasse in quelle lunghe ore, qualcuno che non insistesse nell'esaminare le sue azioni passate, da cui non poteva più scappare. E capii che per lui non ero che uno strumento, una persona senza volontà né giudizio, un'area senza coscienza in cui rifugiarsi, la solo compagnia che poteva sopportare - questo era il motivo per cui aveva richiesta la mia presenza, questo ero il motivo per cui ero lì. Volevo alzarmi e andarmene, spiegare che c'era sto un errore. E mi vidi farlo. Ma solo nella mi testa. Non andò così. Rimasi al mio posto, interpretai per l'ex presidente, in quella stanza, con quegli uomini, fino a che non ebbero più bisogno di me.
Le pose erano artificiose, ma non toglievano nulla all'intimità dei quadri - anzi, proprio lo stare in posa, la relazione insita nell'atto, creava una sensazione di inspiegabile confidenza. In alcuni casi era evidente che i soggetti stessero posando per l'artista, guardavo dritti in quello che definivo l'obiettivo, in camera, anche se un concetto anacronistico, perché davanti a sé non avevano una macchina, bensì il pittore stesso. L'idea era quasi fin troppo personale, uno sguardo umano così prolungato esulava dal mondo dell'esperienza contemporanea. Per quel motivo, i dipinti aprivano una dimensione che in genere non si vede nelle fotografie. In quei dipinti, si sentiva il peso dello scorrere del tempo. Ferma davanti al quadro di una ragazza in penombra, pensai fosse quella la ragione per cui il suo sguardo aveva qualcosa di circospetto e insieme di fragile. Non era la contraddizione di un solo istante; piuttosto, era come se il pittore l'avesse colta in due stati d'animo differenti, due umori diversi, e fosse riuscito a contenerli in un'unica immagine. Aveva esserci stata una moltitudine di istanti simili catturati sulla tela, tra il momento in cui la ragazza si era seduta davanti al pittore e quello in cui si era alzata dopo la sessione finale, con il collo e il busto irrigiditi. Forse era quella stratificazione - una specie di sfocatura temporale, o di simultaneità - a distinguere in definitiva la pittura dalla fotografia. Mi chiesi se fosse la ragione per cui trovavo la pittura contemporanea così pitta, priva della misteriosa profondità di quelle opere, visto che moltissimi artisti odierni lavorano a partire da fotografie.
Tornai alla tela [Judith Leyster, Man Offering Money to a Young Woman, 1631], e mi venne in mente che solo una donna avrebbe potuto realizzare quell'immagine. Il dipinto non parlava di tentazione, ma di molestia e intimidazione, una scena che avrebbe potuto aver luogo in quell'esatto momento in qualsiasi parte del mondo. Il quadro operava intorno a uno scisma, rappresentava due inconciliabili punti di vista: l'uomo, che la ritenga una scena di passione e seduzione, e la donna, immersa in uno stato di paura e umiliazione. Quello scisma, capii in quel momento, era la vera incoerenza che animava la tela, e il vero oggetto dello sguardo di Leyster.
Nel corso delle lunghe ore in cabina, a volte avevo la spiacevole sensazione che di tutta la gente nella sala sottostante, di tutta la gente in quella città, l'ex presidente fosse la persona che conoscevo meglio. In quei momenti, causati da quanto posso solo definire un eccesso di immaginazione, era come se mi calassi nella sua prospettiva. Sussultavo quando il procedimento sembrava andargli contro, provavo un silenzioso sollievo quando invece era in suo favore. Era per me oltremodo inquietante come trovarmi in un corpo che non avevo alcun desiderio di occupare. Scoprirmi così permeabile mi disgustava.
Era un'illusione credere che avessimo ancora una relazione, credere che potesse tornare da me. Eppure, nei momenti in cui riuscivo a guardare oltre i miei sentimenti e il mio ego, ero costretta a riconoscere un'indecorosa verità: che sarebbe bastata una telefonata per farmi tornare a sperare.
Vivere qui non costa poco, il paesaggio ha un che di limitato, perlomeno rispetto al posto da dove vengo io. Torno a casa quando posso. Ho bisogno di stare dove sono nata e cresciuta, e per arrivare in Germania basta un breve tragitto in auto. Però gli olandesi mi piacciono, è gente molto neutrale, anche perfino questo è, in sé e per sé, una cosa cui bisogna abituarsi.
Se Anton non poteva confidare nemmeno a Eline perché era andato là, allora forse era per via di Miriam. Forse, nonostante lui per primo lo aggredisse di continuo, nel suo matrimonio c'era qualcosa di sacrosanto, un'illusione che Anton non osava mandare un frantumi, per quanto scissa dalla realtà di quel momento, in quel ristorante. Eccolo, il potere di un matrimonio.
La prospettiva che si era aperta per un istante, l'idea che il mondo dovesse ancora formarsi, o essere riscoperto, forse era qualcosa che in fin dei conti non potevo spiegare.
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