Dalla steppa siberiana all'asfalto di Parigi e Berlino, fra amori facili e amori impossibili: il romanzo del disincanto e dello smarrimento nell'aria di Weimar.

Un piccolo capolavoro che meriterebbe 5 stelle se solo ci fossero meno dettagli "poetici" (la misera tenda a fiorellini") assunti a simbolo e maggiori elementi realistici.
Hans Tunda appartiene alla schiera dei luftmensches, è fratello maggiore di André Szara, è l'immagine ed il destino di Joseph Roth, di cui ripercorre le tracce - dalla cattura nella I Guerra mondiale, al soggiorno a Berlino ed all'arrivo in Francia - come in un'autobiografia mascherata e profetica. Tunda, il 27 agosto 1926 nella piazza davanti alla Madeleine, è l'immagine di Roth che morirà di lì a pochi anni a Parigi "superfluo come nessuno al mondo" (pg. 152). Così Alja è la cifra di Friedl, la moglie di Roth, che l'anno successivo all'uscita di "Fuga senza fine" apparirà "disinteressata e spenta" e morirà in manicomio a Vienna nel 1934, vittima della T4 Aktion.
"Noi che ritornammo ... non più a casa nostra. Siamo stranieri in questo mondo, veniamo dal regno delle ombre" (pg. 138)
Tunda cerca di inserirsi nel nuovo mondo postbellico, indossando via via differenti maschere (Baranowicz, il combattente per la Rivoluzione, il piccolo funzionario, il reduce, il giornalista), ma non è più in grado di ambientarsi, il suo vagare - la ricerca casuale della vecchia fidanzata - è il tentativo fallimentare di tornare al passato, di "sentirsi nuovamente a casa". ( )

Bello. La fuga di Hans Tunda ci accompagna – ma con levità, senza dramma, perché lui stesso non fa un dramma di nulla – attraverso un’ampia fetta d’Europa e ci mostra una parte consistente degli europei così come uscirono dalla prima guerra mondiale. L’atmosfera è densa di fremiti di novità e lezzo di decomposizione, la Russia sovietica è il nuovo mondo nel quale Tunda saprebbe sopravvivere ma non adattarsi, la mitteleuropa cui torna è smagata, indifferente, vagamente pericolosa: a tratti pare uscire da un disegno di Grosz. Lo lasciamo infine a Parigi, senza speranze e senza sostanziali delusioni, privo di tutto e in qualche modo bisognoso di nulla: un misirizzi della storia, ancora curioso, ancora disponibile ma tuttavia non disposto a tutto. Vedo in lui – oscuramente, lo confesso – un fratello del giovane di origine tedesca, forse un mostruoso assassino, che incontriamo alla fine di 2666 di Roberto Bolaño. Solo che quello appare una sorta di Caino, mentre in Hans Tunda vedo la parte sana che sopravviverà, che forse non farà la fine di Abele, in qualche modo il sale di questa terra. Bello.