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Il dottor Corrado Sciancalepre arrivò nel suo ufficio verso mezzogiorno. Era in Pretura a deporre come testimone in un processo di furto col quale si concludeva una paziente operazione che l'anno prima l'aveva occupato a lungo. Partito da un debole indizio, era riuscito a scoprire gli autori del furto e a recuperare la refurtiva.
Citazioni
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Arrivato a Roma andò in Questura per assicurarsi l'assistenza di un paio d'agenti, poi fece una visita alla zona di via Agamer. La via partiva da uno dei tanti piazzali periferici e scendeva dolcemente verso la campagna. Il numero 15 era a metà della via: una costruzione a cinque piani, piena d'impiegati, senza portineria e con davanti uno spiazzo vuoto, pronto per la fabbrica di un altro condominio. Non sembrava neppure di essere a Roma. Dov'era il Colossseo? Il Palazzo Laterano? Il Foro? Non avendo avuto il tempo di soffermarsi in centro, Sciancalepre aveva l'impressione di trovarsi in una città senza nome e senza storia, misera e brulicamte come un formicaio, dove si nascondevano i fuggiaschi, i ricercati, la gente senza fissa dimora.
La vita coniugale dell'Emilia e dell'ingegner Fumagalli era la conseguenza felice di un matrimonio d'amore; e si svolgeva come quella di tutte le giovani famiglie dove l'arrivo dei figli è procrastinato per non mettere troppo presto un limite alla spensieratezza. Vivevano immersi nella loro felicità, contenti di quella immensa casa che avevano risvegliata col loro entusiasmo giovanile e che esploravano lentamente, dalle cantine alle soffitte. Non avevano mai sentito il bisogno di scendere nel parco. Lo guardavano dal terrazzo del cortile o dal loro balcone come un lago infido e affascinante. Certe notti di luna, partiti gli ospiti, o rientrando da una serata in casa di amici, i due giovani si affacciavano al grande balcone sul parco, con alle spalle la loro camera nuziale. Appoggiati alla ringhiera guardavano i vecchi alberi immersi nel chiarore lunare, i folti cespugli cresciuti a formare un intrico quasi impenetrabile, qualche tratto di viale che appariva lattescente tra le piante e le due grandi magnolie in primo piano, sotto la doppia scalea, luccicanti sul dorso di ogni foglia.
Quel viso un tempo così pallido, era diventato colore del miele e quasi trasparente. I capelli, intatti, si spargevano sul terreno e un raggio di sole penetrato tra gli alberi li accendeva di un riflesso caldo, quasi li confondeva con le foglie secche e accartociate sparse sul prato. I vestiti si erano scoloriti e quasi fusi col corpo, come quelli delle statue. La figura aggraziata e fiorente della signora Giulia non era più riconoscinile in quella forma. Distesa sul terreno sembrava uno scheletro rivestito. D'intorno le si formava lentamente una pozza di liquame che il selciato non riusciva ad assorbire. Solo i capelli ne restavano immuni, così sciolti come nessuno dei presenti, tranne l'avvocato, li aveva mai visti. Sembrava il capo di una ragazza, e nonostante le occhiaie vuote, ricordava moltissimo negli zigomi e nella fronte il volto dell'Emilia. Quando la mossero, dalle occhiaie fluì un denso liquido oscuro. Dall'anulare sinistro le fu tolta la fede d'oro dentro il cui cerchio era leggibile la data del matrimonio.
Arrivò anche la perizia necroscopica. Il perito settore aveva subito dichiarato che sopra un cadavere di tre anni non si sarebbe potuto rilevare nulla. L'eleaborato peritale concludeva infatti lasciando in dubbio le cause della morte. Poteva essere strangolamento o anche annegamento, le cavità interne erano invase di sabbia, muffe e piccole alghe penetrate attraverso la cavità orale durante l'immersione del corp, quando per le piogge il livello della cisterna si elevava. Nessun osso della regione cervicale risultava fratturato. Le cartilagini carotidee erano distrutte dalla putrefazione e e non fornivano indizi. Solo nel caso di una mummificazione naturale avrebbero potuto conservare tracce di sfondamento. Ma il corpo della signora Giulia aveva subito una specie di incompleta saponificazione, per effetto dell'acqua e dell'ambiente senz'aria. Erano parzialmente conservati i piani facciali. In grazia di quell'inceramento, il volto della morta appena portato alla luce aveva consentito un riconoscimento, convalidato dalla fede nuziale. Comunque le cause della morte erano da ritenersi violente. Chi aveva cacciato quel corpo, vivo o morto, nella cisterna, era l'assassino o un suo complice.
Dotato di un fiuto particolare, cioè di quella speciale forma mentale che conferisce ai grandi poliziotti la possibilità di immedesimarsi nel delinquente, il Dottor Sciancalepre aveva raccolto molti successi e non era lontano da una meritata promozione.
Il dottor Sciancalepre era particolarmente amato dai delinquenti, che quasi godevano nel farsi acciuffare da lui, tanto li sapeva trattare. Nel dialetto napoletano, che gli era familiare più del nativo palermitano perché a Napoli aveva vissuto nei primi anni della sua carriera, usava dire: «Che vvulite, a mme u delinquente me piace assai!». Era nato per il delinquente, come il cacciatore per la selvaggina.
– Come un’altra lettera? – La esaminò, la fiutò, la girò da tutte le parti, lesse il timbro: Roma 22 maggio 1955, XII-17. – Ventidue, cinque il mese, cinquantacinque l’anno, dodici il distretto postale, diciassette l’ora. Che cinquina! – esclamò il Commissario. – A meno di aggiungere undici, le corna, e dividere in due temi, anzi, un terno e una quaterna, perché l’undici ci vuole da tutte e due le parti! –.
Ultime parole
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"Darei dieci anni di vita" disse Sciancalepre "per sentire le parole che si stanno dicendo." Arrivati dove finiva il muro del carcere, l'Esengrini e Demetrio si arrestarono un istante. Poi, come due duellanti che si volgono le spalle e s'incamminano per prendere la distanza prescritta, si diressero, sempre con lo stesso passo, l'uno verso destra e l'altro verso sinistra.