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Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello: i ricordi di Sandor Kopacsi, questore di Budapest nel 1956 (1979)

di Sándor Kopácsi

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The novel is set in the midst of the port town of Brest, where sailors and the sea are associated with murder. Its protagonist, Georges Querelle, is a bisexual thief, prostitute and serial killer who manipulates and kills his lovers for thrills and profit.
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Sándor Kopácsi
Abbiamo quaranta fucili Compagno Colonnello

Questa autobiografia dell’ex capo della polizia di Budapest è alla seconda edizione italiana; la prima risale al 1980 e porta il titolo “In nome della classe operaia”, le prime parole della formula usata dai tribunali ungheresi di regime per pronunciare le sentenze. Vale la pena di soffermarci un attimo sulla storia di questo libro. Sándor Kopácsi viene arrestato il 5 novembre del 1956 dal generale Serov e dopo 19 mesi di detenzione in isolamento viene condannato all’ergastolo nel processo che vedrà condannati a morte Imre Nagy, Pál Maléter e Miklós Gimes. Viene rimesso in libertà nel 1963 grazie all’amnistia generale e nel 1975 lui e sua moglie Ibolya emigrano legalmente in Canada dove vive già la loro unica figlia Judit. Kopàcsi è perseguitato dagli incubi notturni, i suoi sogni sono popolati di boia e di corde per l’impiccagione e crede di poter guarire scrivendo le sue memorie. A Toronto stende una prima bozza e manda una sinossi e un capitolo, quello sul processo, allo storico Péter Gosztonyi in Svizzera e a Tibor Mèray a Parigi. Gosztonyi trova un accordo con lo Spiegel per la pubblicazione del solo capitolo sul processo, mentre Mérai riesce a metterlo sotto contratto con la casa editrice francese Opera Mundi per la pubblicazione dell’intero libro. L’Opera Mundi finanzia la trasferta a Toronto dello scrittore emigrato Tibor Tardos che registra una lunga serie di conversazioni con Kopácsi che a Parigi saranno trascritte dal giovane Miklós Vámos, ora uno degli scrittori più noti in Ungheria. Tardos traduce in francese il manoscritto che esce con il titolo “Au nom de la classe ouvriére” nel 1979 e il libro sarà presto tradotto in tedesco, in italiano, in finnico, in olandese, in giapponese e in inglese in tre edizioni diverse. Alla sua uscita il libro provocò molto clamore, perché era la prima testimonianza pubblicata di qualcuno dei processati con Imre Nagy, quando le carte processuali erano ancora top secret.

Nell’autunno del ’56 Sándor Kopácsi era il capo della polizia di Budapest. Di famiglia operaia, lui stesso operaio metallurgico, aveva preso parte alla resistenza contro i tedeschi e aveva fraternizzato con le truppe sovietiche al momento della liberazione del paese. Ne era seguita una carriera fulminea, fino a diventare una sorta di luogotenente del segretario generale del partito comunista, il famigerato Mátyás Rákosi. Nel 1952, a soli 28 anni, viene nominato questore di Budapest.
Kopácsi assiste al processo Rajk e sa fin dall’inizio che László Rajk è innocente, ma ritiene la morte di Rajk un sacrificio necessario per l’affermazione dell’ideologia. Per un periodo diventa anche il direttore dei campi di internamento, pur essendo contrario a quella istituzione. Poiché però è il partito a chiederglielo, accetta l’incarico. E qui potremmo cadere nella trappola dei facili giudizi sulla persona, dobbiamo invece tenere presente che in quel periodo in Ungheria c’erano migliaia e migliaia di comunisti i quali credevano in buona fede alla necessità di provvedimenti anche particolarmente duri in nome della rivoluzione. Gran parte di queste persone non poteva possedere, prevalentemente per mancanza di adeguata istruzione e di informazioni attendibili, la capacità critica necessaria per un’analisi approfondita dell’ubriacatura ideologica. Kopácsi probabilmente era un uomo ingenuo e in buona fede, un proletario divenuto comunista sull’onda di eventi molto più grandi di lui, ai quali reagisce da persona semplice cercando di stringere rapporti amichevoli, quasi da buoni vicini di casa con la nomenclatura ungherese e anche con quella sovietica presente in gran numero nel paese. Frequenta l’ambasciatore sovietico Andropov e dimostra solidarietà a Kádár appena rilasciato dalla prigione di Rákosi. Riconosce un po’ alla volta gli errori, peraltro gravissimi, commessi dal proprio partito e soprattutto da Rákosi, ma solo nei primi giorni della rivolta dell’ottobre del ’56 si rende pienamente conto del divario ormai incolmabile fra il partito, dunque il governo, e la popolazione.
La manifestazione del 23 ottobre lo coglie completamente di sorpresa, ma essendo un uomo dotato di buon senso e non votato alla violenza, non vi si oppone con le armi. Diventa consapevole del fallimento del regime che rappresentava fino a quel giorno e lo schieramento della polizia segreta AVO, direttamente alle dipendenze dei sovietici, fa crollare tutte le illusioni coltivate per un decennio. Vede soldati ungheresi e sovietici fraternizzare con gli insorti e consegnare loro le armi senza intervenire e nelle battaglie tra carri armati russi e polizia segreta da una parte e rivoltosi dall’altra non prende alcuna iniziativa se non per evitare spargimenti di sangue più gravi. Negozia con i ribelli e all’insorgere dei consigli operai in tutto il paese è ormai consapevolmente schierato. Quando il 5 novembre viene catturato dai russi li considera ormai oppressori della nazione ungherese. E’ di grande interesse che Kopácsi non parli mai di elementi reazionari alla guida della rivolta, ma definisce quest’ultima di natura socialista. Racconta di quella accondiscendenza che aveva caratterizzato il comportamento dei sovietici gli ultimi giorni di ottobre e che a ragion veduta faceva pensare alla vittoria dell’insurrezione. Una dichiarazione del governo sovietico ammise infatti la possibilità di ritirare le truppe e riconobbe persino giusta la motivazione della sollevazione popolare. Il quadro cambiò però bruscamente e nel giro di poche ore. Mosca non era più disposta a trattare.

Il racconto dei giorni della rivoluzione fatto da Kopácsi è ricco di dettagli di notevole interesse, ma mentre a tratti gli eventi si seguono quasi minuto per minuto, i giorni dal 25 al 30 ottobre sono coperti da silenzio. Un capitolo molto intenso è riservato al processo cui fu sottoposto insieme a Imre Nagy, Pál Maléter, Miklós Gimes, Ferenc Donáth, Ferenc Jánosi, Zoltán Tildy e Miklós Vásárhelyi, nel giugno del 1958. I primi tre che si comportarono con grande fierezza, furono condannati a morte e impiccati. Kopácsi ebbe salva la vita, probabilmente per intercessione di Kádár memore dell’aiuto che aveva ricevuto dall’ex capo della polizia ai tempi della lotta contro Rákosi. A Kopácsi fu comunque richiesta una parziale ritrattazione e una confessione di colpevolezza che fece senza nuocere agli altri imputati. Kopácsi dedica spazio e parole di grande stima e affetto a József Szilágyi, capo della segreteria di Imre Nagy e suo vecchio amico che fu impiccato già nel marzo del 1958.

Risulta invece imprecisa la citazione che Kopácsi fa delle ultime parole pronunciate da Imre Nagy. Questa versione delle ultime parole di Nagy, storiograficamente non più valida, fu riportata nel ‘68 dall’Irodalmi Ujsàg, la Gazzetta Letteraria di Parigi di Tibor Méray, al quale fu suggerita dallo storico emigrato Péter Gosztonyi che a sua volta l ‘ha avuta da una fonte all’epoca tenuta segreta, in seguito però identificata in Ferenc Donáth, uno degli imputati nel processo Nagy. Poiché, come è stato confermato di recente anche dalla vedova e dalla figlia, Kopácsi non conservava un ricordo preciso delle parole dette da Imre Nagy, lui e Tibor Tardos avevano ritenuto opportuno citare le parole apparse sull’Irodalmi Ujsàg, allora ritenute autentiche.
Il libro rimane tuttavia un documento molto prezioso e non solo sul piano strettamente storiografico. Ci permette di conoscere la vita quotidiana della nomenclatura, di vedere i protagonisti anche come uomini in carne e ossa, non solo come elementi determinanti della storia dell’Ungheria.
Gli eventi hanno reso giustizia a Sándor Kopácsi: nel 1989 è tornato in patria, nel 1990 è stato riabilitato. E’ deceduto a 79 anni nel 2001.
  pecs | Jun 23, 2008 |
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The novel is set in the midst of the port town of Brest, where sailors and the sea are associated with murder. Its protagonist, Georges Querelle, is a bisexual thief, prostitute and serial killer who manipulates and kills his lovers for thrills and profit.

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