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Tom Kemp (1) (1921–1993)

Autore di L' industrializzazione in Europa nell' 800

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11 opere 147 membri 4 recensioni

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Informazioni generali

Data di nascita
1921
Data di morte
1993
Sesso
male

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Il volume di Kemp rappresenta il tentativo di seguire dall'alto e sul piano europeo il processo di industrializzazione. Il punto di partenza è la rivoluzione industriale inglese, presa come parametro di riferimento per lo sviluppo degli altri paesi, e l'ambito temporale è chiuso dalla prima guerra mondiale. I casi esaminati sono quelli della Francia, della Germania, della Russia e dell'Italia. L'autore studia caso per caso le forme di passaggio dall'economia agricola alla società industriale sottolineando le specificità economiche, politiche, sociali e geografiche dei singoli contesti nazionali e il ruolo giocato volta per volta dallo stato, dalla borghesia, dall'aristocrazia.… (altro)
 
Segnalato
kikka62 | 2 altre recensioni | Mar 20, 2020 |
industrializzazione

Processo attraverso il quale una società basata prevalentemente su attività di tipo primario si trasforma in un sistema economico a base industriale. Di questo fenomeno complesso, che s'inscrive in un più ampio processo di modernizzazione sviluppatosi a partire dal XVIII secolo in Gran Bretagna per diffondersi con tempi e modi diversi in altre aree del pianeta, e che è tuttora in corso, sono state date numerose interpretazioni. L'industrializzazione comprende in sé tanta parte delle trasformazioni avvenute in campo economico e sociale, nel patrimonio culturale e nella mentalità collettiva nel corso degli ultimi due secoli. L'analisi delle sue origini, dei suoi caratteri costitutivi e delle sue concrete manifestazioni nel tempo e nello spazio è di tale portata da non consentirne definizioni troppo rigide o spiegazioni riduttive e unilaterali.

IL RUOLO DEL CAPITALISMO. Un'interpretazione ormai classica del processo di industrializzazio-ne fu quella data da K. Marx nel primo libro del Capitale (1867-1874). Per Marx lo sviluppo industriale manifestatosi in Gran Bretagna fra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell'Ottocento coincide con la piena affermazione del modo di produzione capitalistico fondato sulla separazione tra capitale (ossia mezzi di produzione) e lavoro e sulla nascita del proletariato moderno in grado di immettere sul mercato solo la propria forza-lavoro, il cui impiego produttivo genera, con il plusvalore, il profitto del capitalista. Tale chiave interpretativa, se trovava riscontro nel caso inglese di formazione del factory system, caratterizzato dalla diffusione di grandi fabbriche tessili, risultava però di difficile applicazione nei confronti di altri e più lenti processi di industrializzazione, contraddistinti piuttosto da insediamenti produttivi di minori dimensioni e relativi a contesti in cui permangono tanto tra gli operai, quanto tra gli imprenditori, forti legami fra mondo agricolo ed economia industriale. Di fronte ai limiti dell'analisi marxiana della fase matura del capitalismo, destinato secondo il filosofo tedesco a essere travolto dalle crisi derivanti dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, Lenin spostò i termini della questione su una dimensione intercontinentale, nella sua indagine altrettanto classica dell'imperialismo (L'imperialismo fase suprema del capitalismo, 1917, ed. it. 1956). Tale fase avanzata dello sviluppo capitalistico è contraddistinta secondo Lenin dal colonialismo, dall'esportazione massiccia di capitali, dalla nascita dei grandi oligopoli e dal capitale finanziario, motore quest'ultimo di una stagione espansionistica del capitalismo scaturita dalla fusione degli interessi della grande industria, delle banche e della politica estera aggressiva delle principali potenze. Lenin riteneva che la prima guerra mondiale avrebbe dato un colpo mortale all'imperialismo, rivelandone il carattere di costruzione parassitaria progettata allo scopo di allontanare la crisi finale del capitalismo. In realtà gli oligopoli, le grandi concentrazioni tecnologiche e finanziarie e la stessa guerra mondiale rappresentarono, a prescindere da ogni altra valutazione, altrettante occasioni di sviluppo del processo di industrializzazione.

IL PROBLEMA DEL DECOLLO. Le conseguenze della prima guerra mondiale e della crisi del 1929 indussero teorici e storici dell'economia rispettivamente ad applicarsi all'analisi dei cicli economici di lungo periodo e a più prudenti considerazioni circa il carattere irreversibile dell'industrializzazione. Intanto i progressi compiuti negli studi storici sulla rivoluzione industriale inglese, da A. Toynbee (Lectures on Industrial Revolution of the Eighteenth Century in England, 1884) a T.S. Ashton (La rivoluzione industriale 1760-1830, 1948, ed. it. 1969), avevano posto in risalto la relazione esistente tra gli aspetti strettamente materiali di questa e la rivoluzione intervenuta nel mondo delle idee Da tali studi trasse spunto l'economista statunitense W.W. Rostow (Gli stadi dello sviluppo economico) per costruire, sempre sulla base dell'esperienza britannica, un modello interpretativo della transizione da un'economia agricola a una industrializzata. Esso si articola in una serie di stadi che scandiscono il passaggio da una società tradizionale a economia stagnante a una di tipo industriale maturo. Centrale è lo stadio del decollo (take off), contrassegnato da un rapido e sensibile incremento degli indici di produzione e d'investimento nel settore secondario, da un conseguente diffuso aumento dei redditi e dei consumi individuali, premessa a un processo di sviluppo stabile e in grado di autoalimentarsi. Utile come schema di riferimento, il modello di Rostow lasciava tuttavia irrisolti alcuni problemi come quello dei paesi pervenuti all'industrializzazione in ritardo (late comers), tra i quali l'Italia, i cui indici di produzione industriale anche negli anni del «grande slancio» (1896-1906) si mantennero sensibilmente al di sotto di quelli previsti dall'economista statunitense. Un contributo in proposito venne da un altro studioso statunitense, di origine russa, A. Gerschenkron (Il problema storico dell'arretratezza economica), che analizzò in particolare i paesi late comers (Russia, Germania, Italia, Bulgaria) partendo dal presupposto che la loro arretratezza li avesse costretti a percorrere vie alternative nel processo di industrializzazione. Mancando in tutto o in parte dei «prerequisiti» del decollo industriale individuati da Rostow (incremento della produttività in agricoltura, ampliamento dei mercati, crescita di un ceto di imprenditori sensibili alle innovazioni tecniche, disponibilità della manodopera alla mobilità lavorativa, attitudine ai consumi ecc.), tali paesi dovettero far ricorso a «fattori sostitutivi» quali l'intervento dello stato, il sistema bancario, il capitale straniero. Lo studio di Gerschenkron ebbe il pregio di non fondarsi esclusivamente su fattori economici, bensì di costruire un quadro più articolato del processo d'industrializzazione che teneva conto di elementi come l'attitudine degli imprenditori e le scelte di politica economica dei singoli stati. Un importante contributo europeo sullo stesso tema diede il belga P. Bairoch (Rivoluzione industriale e sottosviluppo, 1963, ed. it. 1967), che indirizzò la propria analisi sullo stretto rapporto esistente tra sviluppo agricolo e avvio (démarrage) dell'industrializzazione. Quest'ultimo, secondo lo studioso belga, fu conseguenza del primo, giacché nei vari casi considerati (Gran Bretagna, Francia, Belgio, Stati uniti, Giappone) la modernizzazione del settore primario costituì la premessa indispensabile allo sviluppo industriale in termini sia di accumulazione di capitali, sia di liberazione di manodopera in seguito alla meccanizzazione.

UN PROCESSO COMPLESSO E NON UNIFORME. Alla luce del dibattito sul problema del decollo, ma anche della crisi economico-energetica mondialedei primi anni Settanta del Novecento, gli studi più recenti sull'industrializzazione si sono venuti orientando verso un'analisi più articolata di tale processo, tendendo a coglierne le continuità e insieme le discontinuità sia spaziali che temporali. Abbandonando un'antica contrapposizione alcuni studiosi hanno sondato più a fondo l'originario e durevole rapporto fra agricoltura e protoindustria o industria rurale, sparsa per secoli nelle campagne e fondata sul lavoro delle famiglie contadine (F. Mendels, P. Kriedte, H. Medick, J. Schlumbohm). Altri hanno messo a fuoco il rapporto tra innovazioni tecnologiche e sviluppo industriale (D.S. Landes). Altri ancora hanno evidenziato la varietà e specificità dei processi di industrializzazione, individuando differenze e analogie non tra stato e stato, bensì fra le diverse regioni industriali, in particolare europee, vere unità di misura (al loro interno sufficientemente omogenee) di uno sviluppo economico e industriale che sulla carta geografica si presenta a «pelle di leopardo» (S. Pollard).

IL CASO STATUNITENSE. All'inizio dell'Ottocento gli Stati uniti erano ancora un paese a economia essenzialmente rurale; cinquant'anni più tardi avevano posto le premesse per una rapida crescita industriale; alla fine del secolo erano la prima potenza industriale del mondo. Gli storici statunitensi, sostanzialmente concordi nel ritenere che tale straordinaria trasformazione fu facilitata da una serie di fattori concomitanti (crescita della popolazione quasi doppia rispetto alle principali nazioni europee, ampia disponibilità di materie prime e fonti d'energia, rapida specializzazione e commercializzazione delle produzioni agricole, costante e massiccia estensione delle reti di trasporto e comunicazione, diffuso impiego di alcune cruciali innovazioni tecnologiche, considerevole disponibilità di capitali, dinamico mercato interno), divergono tuttavia nella valutazione del ruolo avuto da ciascuno di tali fattori nel processo d'industrializzazione, della loro interazione con il contesto politico e sociale, della periodizzazione del processo stesso. Così H.J. Habakkuk, in uno studio comparativo sulle tecniche statunitensi e britanniche, ha richiamato l'importanza dell'innovazione tecnologica e in particolare dell'uso di componenti standardizzate e intercambiabili in diverse produzioni meccaniche, mentre i lavori di R.W. Fogel (Railroads and American Economic Growth, 1964) e di A. Fishlow (Railroads and the Transformation of the Ante-Bellum Economy, 1965) hanno messo in discussione l'impatto esercitato dalle ferrovie sulla crescita dell'economia statunitense. La stessa mitizzazione del ruolo economico della frontiera come fattore di estensione e di dinamizzazione del mercato interno, operata a partire dalle tesi di F.J. Turner circa la diffusione di un sistema sociale fondato sulla proprietà indipendente, è stata ridimensionata dagli studi di C. Goodrich e di F.A. Shannon che hanno evidenziato come la marcia verso l'oves sia stata ampiamente sostenuta da sussidi governativi, abbia richiesto la mobilitazione di ingenti capitali e, per molti aspetti, abbia favorito la speculazione e la concentrazione economica, in particolare nelle ferrovie. Proprio in tale mercato di dimensioni continentali si elaborò il prototipo della grande impresa, poi estesosi agli altri settori manifatturieri, studiato da A.D. Chandler. Il problema senz'altro più controverso è quello della periodizzazione della trasformazione degli Stati uniti in potenza industriale. Secondo la tradizionale e autorevole tesi di C.A. Beard e M.R. Read (The Rise of the American Civilization, 1927-1942), ripresa da studiosi come L.H. Hacker e S. Salsbury, lo spartiacque che segnò l'avvio di tale processo fu la guerra civile, dapprima con la mobilitazione di un ampio apparato industriale, l'espansione del credito, la centralizzazione bancaria e l'edificazione di un cospicuo apparato statale, poi, in seguito alla sconfitta del sud agrario e schiavista e all'unificazione del paese sotto l'egemonia politica ed economica del capitalismo industriale del nord, con l'espansione a ovest e il protezionismo doganale. Il carattere eccessivamente rigido di tale assunto fu messo in discussione sia da successivi studi sull'economia sudista, in particolare sulla questione della schiavitù, sia da analisi statistiche compiute dallo stesso Rostow e da T. Cochran (The American Business System: A Historical Perspective, 1955), che indussero questi ultimi ad anticipare di un ventennio il decollo industriale del nord. Tanto per Rostow quanto per Cochran la guerra civile avrebbe ritardato nelle regioni settentrionali un processo di sviluppo della produzione manifatturiera che negli anni Quaranta e Cinquanta aveva già assunto ritmi vertiginosi (gli indici segnano un rallentamento della crescita di diversi settori negli anni Sessanta), mentre la sconfitta sudista avrebbe solo sancito l'uscita di scena di un'alternativa agraria già precedentemente condannata sul piano economico. Benché tale tesi abbia trovato conferma anche in studi di storia sociale, il suo attenersi con inflessibile determinismo al mero dato produttivo, per di più riferito solo ad alcune regioni, ne limita la portata interpretativa, come è stato evidenziato per esempio da E. Foner, che ha mostrato quanto esile fosse l'egemonia di istituzioni, ideologie e politiche del nord prebellico e come la guerra civile sia stata sotto tutti i profili una lotta decisiva per il futuro della nazione, ivi compreso quello della sua trasformazione in potenza industriale.

• D.S. Landers, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1978; S. Pollard, La conquista pacifica, Il Mulino, Bologna 1984; T. Kemp, L'industrializzazione in Europa nell'800, Il Mulino, Bologna 1988; D. North, The Economic Growth of the U.S. 1790-1860, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1961.

A. Preti, F. Romero
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Segnalato
MareMagnum | 2 altre recensioni | May 11, 2006 |

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