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Marvin Harris (1) (1927–2001)

Autore di Cows, Pigs, Wars, and Witches: The Riddles of Culture

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Sull'Autore

Marvin Harris is an American anthropologist who was educated at Columbia University, where he spent much of his professional career. Beginning with studies on race relations, he became the leading proponent of cultural materialism, a scientific approach that seeks the causes of human behavior and mostra altro culture change in survival requirements. His explanations often reduce to factors such as population growth, resource depletion, and protein availability. A controversial figure, Harris is accused of slighting the role of human consciousness and of underestimating the symbolic worlds that humans create. He writes in a style that is accessible to students and the general public, however, and his books have been used widely as college texts. (Bowker Author Biography) mostra meno
Fonte dell'immagine: Public Domain/Wikimedia Commons

Opere di Marvin Harris

La nostra specie (1989) 356 copie
Cultural Materialism (1979) 185 copie
Antropologia culturale (1983) 148 copie

Opere correlate

Anthropological Theory: An Introductory History (1996) — Collaboratore — 206 copie
Ants, Indians, and little dinosaurs (1975) — Collaboratore — 191 copie
Culture and Personality (1961) — A cura di, alcune edizioni41 copie

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(recensione pubblicata per l'edizione del 1990)
recensione di Faccioli, E., L'Indice 1991, n. 1

Perché certe consuetudini alimentari siano dominanti presso i diversi gruppi umani che popolano la terra, quanto possano persistere e in quali congiunture siano sostituite da altre consuetudini. È questa la domanda che Harris pone attraverso la varietà dei temi che presenta; ad esempio la fame di prodotti carnei, l'avversione o la preferenza per la carne di porco, per quella di cavallo, per il latte e i latticini, per insetti di ogni genere, per cani, gatti e altri animali detti di famiglia, per la carne umana. Harris risponde prendendo in considerazione, entro un arco di tempo molto ampio, le scelte effettuate dalle varie collettività, dalle primitive fino alle più evolute e mettendo in luce una casistica mutevole e a volte contraddittoria.
All'esame dei temi proposti l'autore si dispone con l'intento di scoprire e spiegare gli aspetti positivi di comportamenti che sono ancora spesso oggetto d'irrisione, o addirittura di disprezzo; un atteggiamento che Harris, replicando a un'accusa di ottimismo velatamente mossagli da un altro studioso, preferisce definire di "funzionalismo panglossiano", non già perché abbia inteso adottare la facile filosofia del voltairiano dottor Pangloss (secondo la quale tutto va per il meglio nel nostro, che è il migliore dei mondi possibili) bensì perché ritiene che a tutti spetti il dovere di cercare di migliorare il mondo in cui viviamo, di capire cioè il vero funzionamento dei sistemi vigenti per poter progettare e realizzare sistemi alternativi più efficienti.
Non c'è insomma nel lavoro di Harris alcuna forma di compiacimento ottimistico: c'è, piuttosto, la volontà di conferire un valore funzionale e produttivo a ciò che per antifrasi scherzosa egli riconosce come "panglossiano" nel proprio temperamento di studioso. Da tale volontà traggono origine le sue ricerche e soprattutto il modo di perseguirle, in parte con la considerazione critica della letteratura relativa all'argomento (estesa dalla medicina alla dietetica all'economia alla politica alla storia delle religioni all'archeologia all'antropologia alla sociostoria), in parte con l'esplorazione sul campo tra i popoli del Terzo Mondo, in Brasile, nell'Ecuador, nel Mozambico, in India, a verifica delle cognizioni acquisite per via indiretta intorno alle abitudini alimentari di gruppi umani primitivi. Di qui anche una sorta di aggressività intellettuale che gli consente una rapida presa sulla materia, ma che lo impegna in iniziative personali non sempre opportunamente controllate. È lo stesso Harris che ci racconta come una volta, all'università della Florida, abbia indotto i suoi studenti a mangiare cavallette fritte e conservate in scatola, persistendo nell'esperimento benché il preside di facoltà lo avesse avvisato della responsabilità che si era assunto, e come si fosse deciso a sospendere la prova solamente quando gli allievi, già piuttosto riluttanti, cominciarono a denunciare evidenti sintomi di malessere.
Il metodo sul quale s'imperniano le ricerche di Harris sulle condizioni che favoriscono il predominio di certi costumi alimentari è fondato sul calcolo del rapporto tra costi e benefici, rapporto non sempre determinabile con precisione, in particolare nei casi in cui intervengano, mutamenti radicali nei sistemi di produzione o fenomeni apparentemente estranei ad esso (ad esempio la deificazione di un animale con il conseguente tabù alimentare), fenomeni che rafforzano la convinzione corrente fra parecchi studiosi secondo cui alcune abitudini alimentari sono prive di un fondamento razionale investigabile scientificamente. L'autore di "Buono da mangiare" è ben consapevole che la soluzione di qualcuno fra gli enigmi generati da tali fenomeni non garantisce il successo nei confronti di tutti gli altri, che sono infiniti e di grado variabile, ma avverte il pericolo insito nell'arrestarsi alla fase dello sconcerto, lasciando insoluto ogni problema di una qualche complessità. Ad Harris si potrebbe rimproverare di aver ridotto tutte le sue proposte di soluzione al denominatore comune rappresentato dal rapporto costi/benefici, di aver posto in ogni caso l'accento sulla componente economica. Ma conviene riconoscere che in "Buono da mangiare" il rapporto suddetto non sempre è visto in termini strettamente economici n‚ è collocato al grado più alto di una gerarchia causale, mentre è per lo più considerato quale luogo di convergenza e di aggregazione delle varie ragioni che orientano le scelte operate dal gusto collettivo, le preferenze o le avversioni, in un fittissimo intreccio di criteri di ordine nutritivo, ecologico, economico, politico, religioso, che non privilegia alcuna delle sue componenti.
Il primo approccio con il libro può indurre a lamentare la mancata trattazione dei gusti individuali che, nella traduzione italiana, sembrerebbe promessa dal sottotitolo: "Enigmi del gusto". Il sottotitolo originale, "Riddles of Food and Culture" in verità non si presta ad equivoci: Harris esclude anzi perentoriamente ogni interesse per i "capricci dell'immaginario culturale" che si frantumano in miriadi di episodi, quanti sono gli individui considerati, e mutano in breve tempo senza fornire criteri di riferimento per l'indagine. In questo l'autore è in tutto coerente con l'impostazione data alle sue ricerche e al saggio che vi ha fatto seguito. Cionondimeno rimane il dubbio se il taglio drasticamente inferto tra i gusti delle collettività e i "capricci" culturali non sacrifichi i ragguagli integrativi che potrebbero venire dall'esplorazione di una zone intermedia certamente molto sfumata e insidiosa ma non trascurabile.
Un'ultima osservazione, a margine del corredo iconografico allestito per l'edizione italiana di "Buono da mangiare". Le tavole 13 e 14, date come riproduzioni di fogli volanti della Raccolta Bertarelli fanno parte all'origine dell'apparato d'incisioni che accompagna con funzione didascalica l'"Opera" di Bartolomeo Scappi, Venezia 1570, citato a sazietà nel corso dell'odierno revival della letteratura gastronomica.
… (altro)
 
Segnalato
MareMagnum | 2 altre recensioni | May 13, 2006 |

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