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Frank McCourt (1930–2009)

Autore di Le ceneri di Angela

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Sull'Autore

Frank McCourt was born in Brooklyn, New York on August 13, 1930 to Irish immigrant parents. When he was four, his family moved back to Ireland. His father abandoned the family to a life of poverty. He attended school until the age of 14, at which point he was forced to drop out to help support the mostra altro family. In 1949, he returned to the United States, where he worked odd jobs until being drafted into the U. S. Army during the Korean War. Using the GI Bill, he received a degree in English and education from New York University. He worked at several high schools throughout New York City including McKee Vocational and Technical High School, Seward Park High School, and Stuyvesant High School. During this time, he would occasionally write articles for newspapers and magazines. He retired from teaching in 1994. His first memoir, Angela's Ashes, was published in 1996. It won the National Book Critics Circle award in 1996 and the Pulitzer Prize in 1997. His other memoirs included 'Tis and Teacherman. He died on July 19, 2009 at the age of 78. (Bowker Author Biography) mostra meno
Fonte dell'immagine: Flickr user Manzari.

Serie

Opere di Frank McCourt

Le ceneri di Angela (1996) 21,844 copie
Che paese, l'America (1999) 7,944 copie
Ehi, prof! (2005) 4,876 copie
Angela's Ashes / 'Tis (1999) 940 copie
Angela and the Baby Jesus (2007) 432 copie
Le ceneri di Angela (1997) — Original book — 199 copie
Angela's Ashes [abridged] (1997) 25 copie
A Couple of Blaguards (2011) 11 copie
Life: The American Immigrant: An Illustrated History (2004) — Prefazione — 7 copie

Opere correlate

Virgole per caso: tolleranza zero per gli errori di punteggiatura (2003) — Prefazione, alcune edizioni15,658 copie
Yeats è morto! (2001) — Collaboratore — 411 copie
Brotherhood (2002) — Prefazione — 66 copie
An Uncertain Inheritance: Writers on Caring for Family (2007) — Prefazione — 44 copie
Brothers: 26 Stories of Love and Rivalry (2009) — Prefazione — 14 copie

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Rispolvero una vecchia recensione uscita su un portale che continua a vivere solo in maniera digitale, non reale. L'occasione me la offrono alcune care amiche su FB le quali si ostinano a chiamarmi "prof". Alessandra è una gioiosa signora, mia ex alunna, felice moglie, collega e mamma del terzo millennio. L'altra, Luisa, una carissima amica scrittrice, lontana parente, attenta studiosa di antropologia culturale nonchè mamma di una mia ex-alunna di liceo, oggi apprezzata psicologa.

Io, come blogger, e loro come navigatrici e lettrici in rete, facciamo tutti fortunatamente ancora parte del mondo reale. L'irlandese prof. Frank McCourt è passato a miglior vita qualche anno fa. Ma, siatene certi, anche da quelle parti ci sarà qualcuno che continua a chiamarlo Ehi, prof! come il titolo del libro che lui scrisse mentre era in vita. Un libro che ebbe successo. Pieno di esperienze, sentimenti, ricordi che mi sentii di condividere quando scrissi quel post e che oggi, le due cortesi amiche Luisa e Alessandra hanno riportato in superficie nella mia memoria.

Che dire dell’autore Frank McCourt? Prendi in mano il suo libro in una libreria del centro commerciale, leggi il risvolto, ti incuriosisce, scopri che è un collega, irlandese, emigrato ed in servizio docente oltremare, insegna la tua stessa lingua, che per te è di lavoro. La sua è la stessa, ma lingua madre, anche se la insegna da irlandese agli americani. Come dire, un terrone che insegna l’italiano a un polentone leghista. Decidi di comprarlo, inizi la lettura e scopri che non puoi più fermarti a leggerlo.E’ come scoprire te stesso in quelle situazioni: la lingua, la letteratura, la poesia, le classi, le scuole, i compiti, la precarietà, la passione, le illusioni, le delusioni, insomma tutto il mondo di un docente di lingua inglese, che insegna da irlandese la lingua inglese a giovani americani di variegate origini linguistiche, culturali, sociali.

Sembrerebbe che ci possa essere una differenza tra lui e te stesso, quello che hai fatto anche tu per circa 40 anni nelle scuole italiane. Ed invece scopri che, in fondo, tutto si tiene a questo mondo, nel senso che, io e lui, quasi della stessa età, abbiamo fatto le medesime cose, anche se su sponde diverse. E chissà quanti altri come noi, nei posti più nascosti ed improbabili di questo pianeta, hanno fatto, fanno e faranno le medesime cose, insegnando.

Ma allora vi chiederete che senso ha questo libro? Ed invece ce l’ha, e come! E’ come se l’avessi scritto, con quelle stesse idee, impressioni, situazioni. Solo che lui è stato davvero brillante. E poi ho scoperto che ha avuto anche tanto successo con un altro libro. Insomma, a quella età, a questa nostra età, è arrivato la fama. Mica male, davvero. Ma che tipo di insegnante è questo irlandese a New York? Ecco le impressioni di un altro collega Gianfranco Giovannone, che ho pescato in rete.

“Non ha una grande autostima: dopo anni passati negli istituti professionali e un penoso tentativo di ottenere un dottorato al Trinity College di Dublino sbarca allo Stuyvesant di New York , il liceo di diversi premi Nobel che apriva subito le porte delle migliori università del paese. Scrive McCourt: “Avrei insegnato in una scuola che non mi avrebbe mai accettato come allievo” .

Ci si chiede che diavolo ci faccia dietro la cattedra, e spesso se lo chiede lui stesso, perennemente alla ricerca di un modello pedagogico, perennemente invidioso dei colleghi più seri e autorevoli, perennemente incerto del suo status: “C’erano insegnanti di tutta New York che si contendevano un posto allo Stuyvesant; ma io non volevo rinchiudermi. Alla fine di una giornata a scuola esci che nelle orecchie ti ronzano ancora il chiasso dei ragazzi, le loro preoccupazioni, i loro sogni. Che ti seguono a cena, al cinema, in bagno, a letto… Avrei voluto fare qualcosa di adulto e importante, essere in riunione, dettare cose alla mia segretaria, sedermi con gente elegante al lungo tavolo di mogano di un consiglio di amministrazione, andare a congressi internazionali, rilassarmi in un locale alla moda, infilarmi a letto con donne voluttuose, divertirle prima e dopo con qualche spiritoso pettegolezzo, tornare la sera nella mia villa nel Connecticut”.

Perché è consapevole della diversità tra gli insegnanti e qualsiasi altra categoria di lavoratori e professionisti, una specificità non esattamente lusinghiera, come dimostra l’immagine che gli studenti hanno degli insegnanti: “E’ risaputo: dopo scuola i professori se ne vanno dritti a casa, con una borsa piena di compiti da correggere. Magari prendono il tè con la moglie e il marito. Oh no, un bicchiere di vino mai. I professori mica fanno così. I professori non escono. Magari il sabato vanno al cinema. Cenano. Mettono i figli a letto. Guardano il TG e poi si siedono comodi a leggere quei compiti per il resto della serata. Alle undici è ora di prendere un altro tè oppure un bicchiere di latte caldo che favorisce il sonno. Poi si infilano il pigiama, danno un bacio alla moglie o al marito e si addormentano… Qual è l’ultima cosa che pensano i professori prima di addormentarsi? Prima di addormentarsi, tutti quei professori belli caldi nel loro pigiama di cotone pensano solo a cosa potrebbero insegnare l’indomani. I professori sono buoni, ammodo, seri, coscienziosi, e a letto non allungherebbero mai una gamba sulla moglie o sul marito. Sotto l’ombelico i professori sono morti”.

Diciamo la verità, talvolta il collega McCourt ci mette un po’ in imbarazzo, non sappiamo bene cosa pensarne, ma sa raccontarci magnificamente quanto c’è di vitale, irritante, esaltante o insopportabile in questo mestiere. Quando leggerete i brani relativi alle montagne di compiti da correggere che si accumulano come in un incubo, o quando McCourt vi parlerà della petulanza dei genitori ai ricevimenti generali capirete cosa voglio dire. Altro che i convegni del CIDI sull’educazione nella società immateriale. Per quanto talvolta possiamo trovare i suoi metodi un po’ scombinati e bizzarri, e magari di una bizzarria non sempre interessante, McCourt va dritto al cuore di un mestiere in fondo tutt’altro che “normale”: “E’ tutto qui? Possibile che sia questa la mia realtà per venti, trent’anni? Sì, è possibile, e ricordati: se questa è la tua realtà, tu sei uno di loro: un teenager. Vivi in due mondi, Mac.

Passi con loro un giorno dopo l’altro e non capisci che effetto ha questa convivenza sulla tua testa. Teenager per sempre. Arriverà giugno e ciao ciao prof, è stato bello conoscerti, a settembre viene da te mia sorella. Ma c’è un altro risvolto Mac. In classe succede sempre qualcosa. La classe ti mantiene attento, ti tiene la mente fresca. Non invecchierai mai. L’unico pericolo è che potresti avere per sempre la testa di un adolescente. E quello, Mac, è un problema serio. Ti abitui a parlare con i ragazzi mettendoti al loro livello, poi vai a farti una birra al bar e ti scordi come si parla con gli amici. Gli amici ti guardano. Ti guardano come se fossi appena arrivato da un altro pianeta e hanno ragione. Passare un giorno dopo giorno in aula, Mac, significa vivere in un altro mondo”.

Sì, eterni fanciulloni, non c’è niente da fare, è questo che ci distingue da un bancario o da un ingegnere, da un dottore o da un manager, diciamo la verità, spesso ci chiediamo noi stessi se il nostro è un lavoro “vero”, spesso dubitiamo che sia un lavoro finto, un lavoro finto con uno stipendio simbolico. Ma è un lavoro in cui si sputa sangue, non solo per i compiti da correggere o per la petulanza aggressiva dei genitori, non solo per quelli tra di noi che sono in trincea in un istituto tecnico o professionale, con un unico obiettivo didattico, sopravvivere. Con semplicità, a naso, McCourt ha compreso la natura sostanzialmente conflittuale del nostro lavoro, croce e delizia di ogni insegnante vero che sa che la cosa veramente vitale è conquistarsi l’attenzione e il rispetto degli studenti.

Ed è dura, mattina dopo mattina, entrare nella fossa dei leoni, spesso maledicendosi per non essere dietro una rassicurante scrivania o lo schermo di un computer: “Dover affrontare ogni giorno decine di adolescenti ti riporta con i piedi per terra. Alle otto di mattina i ragazzi se ne infischiano di come ti senti tu – stai pensando a cosa ti aspetta, cinque classi, fino a centosettantacinque ragazzi americani scorbutici, affamati, innamorati, ansiosi, allupati, gagliardi, provocatori, e sai di non avere scampo. Ti ritrovi lì con il mal di testa, la gastrite, gli echi della litigata con tua moglie, con la fidanzata, col padrone di casa, quel rompicoglioni di tuo figlio che vuole diventare Elvis ed è un ingrato.

Stanotte non hai chiuso occhio. Hai ancora la borsa piena di compiti, i cosiddetti temi di centosettantacinque studenti, scarabocchi buttati giù alla meno peggio. Ehi, capo, l’hai letto il compito mio? Non che glene importi qualcosa…Per loro sono solo l’ennesimo professore, quindi che cosa conto di fare?Incenerirli uno a uno?Bocciarli tutti? Svegliati bello. Quei ragazzi ti tengono per le palle, e ti ci sei ficcato dentro da solo in questa situazione. Mica c’era bisogno che usassi quel tono. A loro non importa del tuo umore, del tuo mal di testa, dei tuoi guai. Hanno i loro problemi, e uno di questi problemi sei tu”.

Ma McCourt non è solo un insegnante, ha il temperamento del vero scrittore, e questo spiega tante stranezze ed eccentricità: “Stai invecchiando. Ma allora dimmi se sei o non sei un mick chiacchierone e un po’ cialtrone, che sprona i ragazzi a scrivere sapendo che il suo sogno sta morendo. Ti consoli pensando che un giorno uno dei tuoi alunni più dotati vincerà il Pulitzer o il National Book Award, ti inviterà alla cerimonia e nel suo brillante discorso riconoscerà che deve tutto a te”. E, a rebours, alcuni “esperimenti” didattici apparentemente un po’ strampalati si spiegano proprio con l’intreccio della prospettiva dello scrittore con quella del professore, ed è sempre la prima a prevalere.

Come in quella pagina irresistibile sulle giustificazioni che voglio citare per intero perché il lettore, soprattutto se insegnante, possa avere un assaggio del divertimento che lo attende tra le pagine di Ehi, prof!:
“Come avevo fatto a trascurare quel tesoro, quei gioielli di inventiva, fantasia, creatività, santarellismo, autocommiserazione, problemi familiari, caldaie esplose, soffitti crollati, incendi che radono al suolo interi isolati,poppanti e animali che fanno pipì sui compiti, parti inattesi, attacchini cuore, ictus, aborti spontanei, rapine a mano armata?Quello era il meglio della prosa scolastica americana: cruda,concreta incalzante, lucida, breve, menzognera. La stufa ha preso fuoco, la tappezzeria si è incendiata e i pompieri ci hanno fatto restare fuori di casa tutta la notte. Siccome il gabinetto era otturato siamo dovuti andare a liberarci giù al bar Kilkenny dove lavora mio cugino ma anche lì il gabinetto era otturato dalla sera prima e fra tutte queste difficoltà Ronnie non ce l’ha proprio fatta a prepararsi per l’interrogazione. La prego per stavolta di giustificarlo. La cosa non si ripeterà più… Il cane di mia sorella gli ha mangiato il compito, guardi io spero proprio che ci si strozza”.

Fin qui Giovannone. Adesso riprendo io. Ecco, mi sembra che si sia detto tutto su questo libro. Forse, per i non addetti ai lavori, anche troppo. In effetti per me è stato come un ritrovarmi in queste pagine, alla fine dei miei giorni nella scuola italiana. Senza rimpianti, rimorsi o recriminazioni e nemmeno senza strapparmi i capelli, che ormai da tempo non ho più, nè tantomeno rimpiangere gente, colleghi e non, che non si faranno affatto rimpiangere. Come anche migliaia e migliaia di giovani ai quali si aggiungono quella altre migliaia di studenti di mia moglie.

Perchè, dovete sapere, che la mia vita di docente l’ho condivisa con quella di marito con una moglie che faceva e ha fatto le mie stesse cose: docente di lingua e letteratura inglese nelle scuole della Repubblica Italiana in gran parte della seconda metà del secolo e millennio scorsi. Se qualche nostro e mio studente dovesse incontrarmi/ci, ne incontriamo sempre di tanto in tanto, una preghiera vorrei rivolgere loro: per favore non ci/mi avvicinate lanciandomi/ci la frase “Ehi, prof!” Mi/Ci irriterremmo moltissimo e lo manderemmo a quel paese anche se dovesse essere quello sfaticato della IV B diventato sindaco o presidente del consiglio!
… (altro)
 
Segnalato
AntonioGallo | 89 altre recensioni | Aug 11, 2023 |
Leggendo questo libro, mi sono resa conto di come si possa raccontare con leggerezza, e addirittura con irresistibile umorismo, una storia di inimmaginabile miseria e di lutti tremendi. Ma anche una storia di speranza, un cammino verso una vita più accettabile e dignitosa. Frank Mc Court lo fa, filtrando le vicende attraverso gli occhi del bambino che lui stesso è stato, e dando vita ad un autentico capolavoro.
 
Segnalato
Ginny_1807 | 336 altre recensioni | Aug 23, 2013 |
La fiction è semplice da analizzare, si può sezionare, guardare al microscopio, distruggere senza alcun rimorso. Ma quando un autore scrive per raccontarti la sua storia, allora è diverso, c'è una sorta di timore reverenziale anche soltanto ad iniziare la lettura. Eppure, Frank McCourt ti prende per mano, come se fosse ancora quel bambino di dieci anni, e ti fa correre insieme a lui per le strade umide d'Irlanda, per mostrarti i luoghi della sua infanzia, come farebbe con un coetaneo, in cui tu finisci per trasformarti, dimenticando tutto il resto.

La lettura di questo libro è un'esperienza da ricordare, dolorosa e divertentissima insieme; è un viaggio nell'Irlanda di metà secolo scorso, in una società fortemente cattolica, bigotta, molto tradizionalista, che apparirebbe incomprensibile a qualsiasi bambino, figurarsi a uno cresciuto nella libera America. E Frankie bambino, che non puoi non amare, ti racconta la propria vita con un'ironia così intelligente che riesce a farti ridere delle proprie miserie come se mettesse in scena una commedia teatrale. Non si tratta di commedia, ma di autobiografia, e ogni tanto fa bene ricordarselo, e ricordarsi che alla faccia della zia Aggie

"Aunt Aggie stands at her door and tells us be good boys, come back for tea anytime, and there’s a bad word for her in my head, Oul’ bitch. It’s in my head and I can’t help it and I’ll have to tell the priest in confession."
(Zia Aggie ci saluta dalla porta dicendo fate i bravi, venite a cena quando volete, e dentro di me mi viene da risponderle: Brutta stronza. La parolaccia m’è venuta così e non posso farci niente ma mi sa che dovrò raccontarlo al prete in confessione.)

e di tutti coloro che gli hanno reso la vita difficile, Frank ce l'ha fatta e anche magnificamente.

Le ceneri di Angela è stato anche un meraviglioso viaggio linguistico, per me che l'ho letto in lingua originale, in una lingua contaminata, che prende strade fantasiose e forme strane. Inizialmente mi ha stranito, mi è sembrato che le parole mi sfuggissero, ma è durato soltanto il tempo di acclimatarmi a quelle voci, a quegli accenti, ai volti dei protagonisti. E questo mi ha permesso di essere completamente immersa nell'atmosfera di Limerick, le voci hanno dato vita ai volti della storia, i colori ai luoghi. Le canzoni, le leggende, i poemi, ogni parola ha reso un'immagine vividissima dei luoghi e dell'atmosfera.

Ma al netto delle risate, delle arrabbiature, delle tristezze a cui questo libro ti porta, resta soltanto, incontrastata, la sensazione di un amore imprescindibile nei confronti della propria famiglia, nonostante la fame e il freddo e le delusioni, non c'è dubbio che il Frank adulto guardi ai genitori con sguardo amorevole e di assoluzione.

"I know when Dad does the bad thing. I know when he drinks the dole money and Mam is desperate and has to beg at the St.Vincent de Paul Society and ask for credit at Kathleen O’Connell’s shop but I don’t want to back away from him and run to Mam. How can I do that when I’m up with him early every morning with the whole world sleep? He lights the fire and makes the tea and sings to himself or reads the paper to me in a whisper that won’t wake up the rest of the family. Mikey Molloy stole Cuchulain, the Angel on the Seventh Step is gone someplace else, but my father in the morning is still mine."

(Lo capisco quando Papà l'ha combinata grossa. Lo capisco quando si è bevuto i soldi del sussidio e Mamma disperata deve andare a mendicare alla San Vincenzo e chiedere a Kathleen O'Connell se può farle credito, però non voglio abbandonarlo e correre da Mamma. Come posso fare una cosa del genere quando ogni mattina presto mi alzo con lui mentre tutti gli altri dormono? Papà accende il fuoco, prepara il tè e canticchia tra sé o mi legge il giornale in un sussurro per non svegliare il resto della famiglia. Mikey Molloy mi ha rubato Cuchulain, L'Angelo del settimo scalino se n'è andato da qualche parte, ma mio padre di mattina è ancora mio.)
… (altro)
 
Segnalato
Gorgibus | 336 altre recensioni | Apr 27, 2013 |

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