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Vinicio Capossela

Autore di Non si muore tutte le mattine

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Comprende il nome: Vinicio Capossela

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Da tempo avevo sospesa la lettura di questo libro, un po’ lo temevo, un po’ lo rimandavo. E devo confessare che l’ho iniziato con un po' di diffidenza, il linguaggio molto figurato; da un lato il ricordo di Alfredo Tarullo e delle terre raccontate da Capossela mi davano forza, ma alla fine ha prevalso la noia. Non è stato l’utilizzo delle parole, per certi versi lodevole e intelligente, ma questa lunga favola raccontata che non riesce, a mio avviso, mai a prendere una forma. Capossela fa il musicista, prova a far cantare l’Irpinia, le persone, i posti, i luoghi; unisce realtà, il contributo per la ricostruzione, con miti e favole. Un progetto originale e meritevole della massima attenzione; ma se prevale la noia, l’incapacità di tenere il filo, qualcosa non funziona. Probabilmente l’ambizione di Capossela di scrivere un libro importante si è scontrata con una costruzione di dettaglio precaria, incompleta. Mi sono perso subito, e il filo non l’ho mai ritrovato.… (altro)
 
Segnalato
grandeghi | Apr 29, 2019 |
Incipit: " «Crisi» etimologicamente deriva dal greco kríno, separare, cernere, dividere.Crisi: un concetto adatto al rebetiko, che è musica nata da una separazione, e anche alla Grecia, da cui l’Europa si sta separando, nel disprezzo che sta alla base di ogni rifiuto.
Di Grecia si sente molto parlare in termini che ricordano la tragedia, che proprio qui è stata inventata. Da tragedia la parolatragudi, canzone, e nella sua radice la parola tragos, capro. Tragodia, canto del capro. Capro espiatorio dei peccati dell’Europa è il paese che ne è la madre culturale. Europa, figlia di un re di Creta sedotta da Zeus. Europa, «grandi occhi», terra di ponente, disposta al tramonto.
Tutto quello che viene dalla Grecia, fin dall’antichità, ha un carattere universale. Ci parla dell’uomo, dell’anthropos. Ci dice dell’uomo, del destino, di cosa sta succedendo all’uomo d’Occidente in questo momento di «crisi», di scelta.
Andiamoci, con un piccolo strumento in mano, come un tirso, accompagnati da una musica nata da una catastrofe. Katastrofìs, così ancora oggi i greci chiamano la 12 guerra greco-turca del 1922, la distruzione di Smirne e l’esodo dei greci di Asia Minore. Il milione e mezzo di profughi che, dopo il trattato di Losanna, in quegli anni si riversarono, senza possedere più nulla, in una madrepatria per niente felice di accoglierli. Con loro portarono una musica e usanze d’altrove, si ammassarono in quartieri suburbani che cambiarono la fisionomia sociale della «Parigi del Mediterraneo orientale», come Atene veniva definita negli anni venti, e come la voleva la politica di occidentalizzazione culturale del giovane stato greco. La musica rebetika, a differenza della dimotikì – musica da suonarsi all'aperto, in grandi feste, madre della canzone popolare –, è musica urbana. Musica che si consuma in luoghi chiusi e che predilige lo struggimento individuale. Mentre la dimotikì si identifica con la regione d’origine e appartiene a chi si riconosce nei suoi canti e nelle sue danze, la rebetika appartiene a tutti. È apolide. È musica di sradicati di ogni regione. Si diffonde per il paese, incurante del luogo, dello strato sociale e del livello culturale di chi la pratica. Nata da una divisione, unisce.

E' un viaggio nella Grecia della crisi e nella sua musica ribelle, il rebetiko (da Atene a Salonicco, a Creta, a Ikaria). Bisogna leggere questo libro con un Ipad o un PC davanti, che permetta di ricercare i nomi dei musicisti e di ascoltare le loro canzoni (tragudia). Sopratutto per leggere questo libro bisogna amare la Grecia e la sua cultura, che non è solo quella classica, ma anche quella più recente e popolare, nata nelle taverne e nei porti, da suonatori di bouzuki, venuti dalla Turchia dopo la Megali Katastrofì degli anni '20, quando migliaia di Greci furono espulsi dalle città turche e arrivarono senza beni nelle città greche. Un popolo di sradicati, malvisti dai Greci della madre patria che li vedevano come degli estranei. Le loro canzoni riflettevano questo senso di emarginazione e parlavano di amori finiti male, di malavita e di droghe. Questa immersione nel "nero" (o nel blu) della depressione, provoca una specie di vaccinazione, che aiuta ad accettare la vita dura e difficile.Come il blues, a cui viene paragonato, il rebetiko mostra una sua forza e un suo carattere ribelle, che lenisce e dà sollievo.
I grandi rebetici: Iannis Papaioannu, Manlis Papos, Manolis Chiotis, Dali Keti, Vassili Tsitsanis, Markos Vamvarakis, Elios Petropoulos, Evghenios Vulgaris.
… (altro)
½
 
Segnalato
ren47 | Feb 22, 2015 |
che la follia sia la nostra luce
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o forse perchè le cose si vedono meglio quando la vita ci ha messo una distanza che le rende innoque.
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un bicchiere è un'arma micidiale quando lo appoggi vicino al cuore.
 
Segnalato
nerocristallo | Aug 26, 2009 |

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