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Piero Camporesi (1926–1997)

Autore di Il pane selvaggio

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Sull'Autore

Piero Camporesi (1926-1997) was formerly Professor of Italian Literature at the University of Bologna, Italy.

Comprende il nome: Piero Camporesi

Fonte dell'immagine: Piero Camporesi

Opere di Piero Camporesi

Opere correlate

La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene (1891) — A cura di, alcune edizioni393 copie
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1606) — A cura di, alcune edizioni58 copie
Lettere — A cura di, alcune edizioni3 copie

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Informazioni generali

Data di nascita
1926
Data di morte
1997-08-24
Sesso
male
Nazionalità
Italy
Luogo di nascita
Forlì, Italy
Luogo di morte
Bologna, Italy
Luogo di residenza
Bologna, Italy
Attività lavorative
Professor of Italian Literature
anthropologist
Organizzazioni
University of Bologna, Italy

Utenti

Recensioni

"La carne impassibile" è un viaggio affascinante e terribile nel territorio della corporalità dal Medioevo alla Controriforma. Oggetto di esorcismi e di mortificazioni, di torture e di cerimoniali terapeutici sacro-profani, affetto da malattie incurabili e da logoramento precoce, il corpo era lo specchio di un universo corruttibile, verminoso, putrescente, centro ossessivo di un immaginario tutto rivolto alla speranza della vita ultraterrena e alla "impassibilità" beata della carne santificata e incorruttibile.… (altro)
 
Segnalato
MareMagnum | May 23, 2006 |
Attraverso tre saggi (il primo dedicato al latte, il secondo alle abitudini alimentari del Petrarca, il terzo al mito della dieta mediterranea) l'autore ricostruisce caratteristiche, storia, attrattive, gusti della cucina della Padania. Un imprevedibile ritratto di Francesco Petrarca insabbiato nelle corti del Nord Italia e alle prese con gli eccessi della cucina viscontea, s'inserisce con felice sorpresa fra queste raffinate pagine "padane".

recensione di Montanari, M., L'Indice 1994, n. 4

"Ogni liquido è acqua e ogni acqua è latte". E rieccoci immersi nella prosa suadente di Camporesi, in quello stile inconfondibile, ricco di immagini e suoni oltre che di sostanziose realtà, che ancora una volta ci trasporta nei segreti della cultura cibaria, là dove storia e antropologia mirabilmente s'intrecciano. "Dalla Padania alla steppa", reca in sottotitolo il volume: direzione inversa a quella che portò le culture nomadi delle steppe eurasiatiche a imporsi nelle tradizioni alimentari della nostra Padania. Ne esce una sorta di rivendicazione dei caratteri originali di una cultura, quella padana, che Camporesi sente minacciata dall'imperversare delle diete mediterranee e dal vero e proprio imperialismo esercitato oggi dalle tendenze al magro, all'esile, all'insapore e inodore, che egli avverte come minaccia incombente sul sistema di valori sedimentato nei secoli dalla cultura del latte, del formaggio, del burro, del grasso. La "linea lombarda", scrive Camporesi, ''oggi sembra in difficoltà, in difficoltà il sistema alimentare padano nel suo insieme", oppresso da quello "striminzito sole di pasta rosseggiante di pomodoro" che a poco a poco va a sostituire stufati e trippe, costolette e brasati, rane e tinche, burro e formaggi. Ma attenzione: non è una guerra del Nord contro il Sud quella che va predicando Camporesi (in tempi di leghismo, il messaggio sarebbe di dubbio gusto...). Il "Sud" che egli demonizza è il Sud 'falso' inventato dai mass media, dalle mode omologanti e dagli apostoli di una dieta "mediterranea" che ben pochi abitanti del Mediterraneo hanno storicamente praticato - e che, comunque, nessuno di loro ama: una storia fatta di fame e di stenti non va d'accordo con il piacere della leggerezza.
Tra i due saggi che, su questi temi, aprono e chiudono il volume ("La via lattea", "Mediterraneo e dieta padana") è incastonato un piccolo gioiello dove il miglior Camporesi storico della letteratura vien fuori a tutto tondo: "Il padano Petrarca" s'intitola, e ci dice dei rapporti non facili di Petrarca con la cultura del burro, della carne e dell'abbondanza alimentare, così come emergono dall'epistolario e dall'opera poetica. Soprattutto è geniale il parallelo tra 'ars dictandi' e 'ars coquinaria' in quel tardo medioevo che tanto amava l'agrodolce e i contrasti di sapori: "l'agrodolce rappresentava la versione culinaria, il troppo commestibile della figura ossimorica", e a Petrarca, che preferiva gusti semplici e non aveva mai apprezzato l'agrodolce, dovettero venire forti perplessità sugli azzardati ossimori di cui aveva infarcito i suoi versi, quando il 15 giugno 1368 assistette al passaggio interminabile di portate - difficili per il suo palato - servite alla corte dei Visconti per il matrimonio di Violante con Lionello Plantageneto. Questo immagina Camporesi, ed è una bella lezione su come, con le dovute cautele, anche i più nascosti dettagli psicologici possano introdursi nell'analisi storica e letteraria.
… (altro)
1 vota
Segnalato
MareMagnum | May 22, 2006 |
L'autore intraprende una sorta di viaggio all'inferno attraverso l'immaginario dell'alimentazione, della fame, del corpo, della malattia nella società preindustriale: un museo degli orrori che ricostruisce sogni, allucinazioni, incubi di un'umanità miserabile e affamata.

"La fuga nei paradisi artificiali, nei mondi rovesciati, negli impossibili sogni di compensazione delle folle stracciate e affamate dei secoli moderni nasce dalla invivibilità del reale, dal basso dosaggio vitale, dalle carenze e (per contrapposto) dagli eccessi alimentari che inducono a una interpretazione sussultoria, incoerente, spasmodica della realtà": così Piero Camporesi - con una consapevole allusione alla realtà contemporanea - introduceva all'inizio degli anni Ottanta "Il pane selvaggio", tumultuoso affresco dove brulica una folla affamata, 'unta', piagata, ossessionata da demoni, folletti e spettri, terrorizzata da vermi e altri sordidi 'animalicula'. Dai fondamentali saggi di Piero Camporesi - attento sia all'aspetto letterario sia alla storia materiale - è emersa per la prima volta la ricostruzione di una società contadina, al limite della sopravvivenza, che viveva in uno stato di allucinazione pressoché continua. Un mondo traversato da oscuri e inquietanti segnali, dove anche il sangue e il grasso venivano universalmente accettati come rimedi dalla farmacopea di esorcisti e aromatari. Le allucinazioni, le visioni, i deliri individuali e collettivi erano indotti dalla fame, la più diffusa delle droghe, e in generale da una alimentazione povera e sbilanciata, dove non mancavano erbe malefiche e allucinogene. Ma proprio queste ultime potevano provocare, invece delle demoniache allucinazioni, sogni non terrificanti, che domando la fame permettevano d'attingere a incontaminate riserve fantastiche: basti pensare all'oppio, regolarmente utilizzato nella panificazione e persino per tranquillizzare i lattanti. A colpire ancor oggi nell'opera di Piero Camporesi sono in primo luogo la straordinaria erudizione, l'abilità nell'interrogare fonti 'minori', dimenticate o trascurate, l'attenzione alla realtà materiale. Ma ad affascinare il lettore è anche una prosa rigogliosa, palpitante, e insieme impeccabilmente precisa, che stabilisce un intenso rapporto con le citazioni utilizzate, in una sottile dialettica tra l'indagine scientifica e il suo oggetto, un passato che ritorna quasi magicamente a vivere.… (altro)
 
Segnalato
MareMagnum | 2 altre recensioni | May 22, 2006 |
In questo saggio Piero Camporesi ricostruisce le rappresentazioni del sangue nelle società premoderne. Esplorando i riti e le ossessioni della mentalità collettiva, porta alla luce il fitto intreccio di pregiudizi, credenze religiose, pratiche mediche. Il sangue si carica di significati magici, richiami mistici, prodigi farmacologici, sogni alchimistici.

recensione di Tarpino, A., L'Indice 1997, n.11

"Il sangue c'è fatto beveraggio a chi 'l vuole e la carne cibo - scrive santa Caterina da Siena nelle" Lettere" -: però che in neuno modo si può saziare l'appetito dell'uomo, né tollersi la fame e la sete se non nel sangue". Ai confini fra sacro e profano, il sangue è considerato, nelle società premoderne, il nutrimento divino per eccellenza, come illustra Piero Camporesi nella nuova edizione de" Il sugo della vita" (corredata da un'ampia prefazione dello studioso scomparso di recente). Con* Le vie del latte "(Garzanti, 1993), e" Il brodo indiano "(Garzanti, 1990, uno dei suoi studi di maggior successo dedicato alla cioccolata, divenuta di moda nel Settecento)," Il sugo della vita "si presta a comporre un'ideale trilogia simbolico-alimentare che ricostruisce, assecondando i percorsi più interiori della vita organica, i riti e le credenze mediche e religiose dei secoli trascorsi.
A differenza dalla nostra cucina, in cui spicca il bianco castigato degli yogurt e delle mozzarelle e invece il rosso risulta affidato esclusivamente a carote, peperoni e soprattutto al pomodoro - nuovo prestigioso succo della vita -, l'alimentazione del passato partecipava di un onnipresente gusto del sangue. Quasi che la progressiva laicità dei modi di vivere si sia riflessa nei colori stessi dei regimi alimentari che si sono succeduti nel tempo. Migliacci, sanguinacci, cervellati, budini di carne sanguinolenta, sangue bollito, frittelle di sangue, affollavano le tavole, con richiami un po' vampireschi.
Nell'antico cattolicesimo il sangue "pane di vita" era considerato portatore di inesplicabili energie che mettevano in comunicazione l'anima umana e il divino; con la stessa realistica intensità il sangue, "tiepido vino", era sentito come magico liquore, elisir salutifico travasato dalle vene di Cristo. Il pane e il vino, metafore entrambi dell'elemento sanguigno, costituivano una coppia indissolubile (santificata dal mistero dell'eucarestia) posta al vertice di una piramide alimentare formata in larga parte da carni rosse e da vivande a base di sangue. Da questo "brodo vermiglio", umido e soave, le esistenze declinanti ed estenuate potevano attingere nuovo vigore; e dai suoi stessi eccessi ci si difendeva, dentro, con purghe leggere, fuori, sudando e ungendosi con olii preziosi.
Nell'orizzonte ormai perduto dell'uomo galenico vita e sangue finivano così per coincidere: virtù rigenerative e poteri salvifici che si acquisivano per il suo tramite facevano del sangue il lubrificante più ricercato per il corpo e per lo spirito.
Tracce di questa cultura alimentare del sangue, che raggiunge il suo acme nel Cinquecento di Rabelais, sono documentate ancora nell'altopiano di Asiago intorno agli anni trenta: lo ricorda Mario Rigoni Stern ne" Le stagioni di Giacomo "(Einaudi, 1995): i più poveri, che non potevano comprarsi neanche il companatico per la polenta, levavano sangue dal collo della vacca e lo mangiavano cotto con la cipolla.
… (altro)
 
Segnalato
MareMagnum | 1 altra recensione | May 22, 2006 |

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