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Suad Amiry

Autore di Sharon e mia suocera

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Sull'Autore

Suad Amiry is a Palestinian writer and architect. Born in Damascus to a Syrian mother and a Palestinian father from Jaffa, she now lives between Ramallah and New York City. She is the founder of Riwaq: Centre for Architectural Conservation, in Ramallah, and the author of several highly-acclaimed mostra altro memoirs including, Sharon and My Mother-in-Law (2005); Menopausal Palestine (2011); Nothing to Lose but Your Life (2011); and Golda Slept Here (2014). mostra meno
Fonte dell'immagine: Courtesy of Allen and Unwin

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Data di nascita
1951
Sesso
female
Nazionalità
Palestine

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Dopo aver letto "Sharon e mia suocera: diari di guerra da Ramallah, Palestina" (Feltrinelli, 2003) di Suad Amiry, uno strepitoso ed irresistibile diario di guerra dai Territori Occupati, condito dall'irresistibile humor dell’autrice, mi è stato impossibile rinunciare a leggere il suo continuo dal titolo “Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione” (Feltrinelli, 2005). Va detto che i due libri sono stati, successivamente alla loro pubblicazione, raccolti da Feltrinelli in un unico volume. Sulla falsariga del “primo tempo” anche in questa “ripresa” Amiry scende in campo con una scoppiettante autobiografia capace di trasformare un dramma, quello della difficile e quasi impossibile quotidianità che subisce chi vive nei Territori Occupati (in questo frangente la Cisgiordania), in una commedia mediorientale governata dall’ironia e che sovente sfocia nella gag comica.

È uno stile di vita che nessuno di noi riuscirebbe a gestire per più di una settimana lavorativa, weekend escluso. Ma per Suad Amiry ed i suoi vicini, gli amici, i parenti che vivono accanto a lei a Ramallah è la normalità. Una normalità caotica, frammentata, non programmabile, rischiosa e talvolta dolorosa, ma questo è. Ed in questo la vita continua, quasi come in una follia sospesa nel tempo, a galla in quel mare di contraddizioni che è l’occupazione da parte di Israele. Situazione di guerra perenne che, a tratti, assume i contorni di una soap opera, ma che tanto divertente in fondo non lo è, se non fosse che in quella obbligata abitudinarietà alla sopravvivenza, sugli eventi che scandiscono le giornate, ogni palestinese ha trovato il modo di riderci sopra, tanto è l’assurdità di ciò che accade.

Ed è così che in un fazzoletto di terra in cui ci si muove con i tempi del coprifuoco e per spostarsi di pochi chilometri si devono affrontare oltre trecento checkpoint israeliani, per un palestinese con la carta d'identità di Ramallah (che gli rende illegale vivere a Gerusalemme) è assai più complesso e difficile (se non impossibile) ottenere un passaporto per Gerusalemme di quanto lo è invece per Nura, il cane dell’autrice, che dopo esser stata vaccinata in un ambulatorio veterinario battente bandiera israeliana, ha ottenuto l’agognato lasciapassare. Ed ecco la sceneggiatura per la commedia, tanto assurda da non sembrare nemmeno possibile: il cane può teoricamente attraversare liberamente i checkpoint, mentre a Suad ed alla sua vettura servono due diversi permessi e lunghe file. Perché quindi non spiegare al militare con la stella di David, tra le pieghe della latente pazzia, che lei è l'autista di un cane di Gerusalemme e che non potendo lo stesso guidare, lei gli fa da autista?

Tutto ciò conferma quanto Suad Amiry ha spesso dichiarato nelle interviste: “quando si vive come noi palestinesi dei Territori, sottoposti a umiliazioni, ingiustizie, limitazioni della propria libertà, non ci si esprime mai fino in fondo perché si rischia la pazzia o l’arresto. Si cercano strategie di sopravvivenza, ci si attacca alle abitudini per isolarsi. Siamo come una pentola col coperchio: per troppa pressione ogni tanto esplodiamo”.

L’architetto Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, insegna oggi alla Birzeit University ed è tornata a Ramallah dalla diaspora per amore, affrontando l’attesa di ben sette anni per il rilascio della sua carta di identità dei Territori Occupati. Con un graffio narrativo non comune, ella ci fa partecipi della via crucis palestinese, ci coinvolge nei piccoli e grandi contrattempi della sua vita, ci fa simpatizzare nuovamente con Umm Salim, l'ingombrante e svagata suocera ultranovantenne, e con il marito, rassegnato ormai all’incontenibile forza di ribellione della donna di cui si è innamorato. Sullo sfondo di questo quotidiano così irrazionale e a tratti disumano, una sorta di zoo del pregiudizio in cui nessuno tenta più la via della mediazione culturale, c’è la polvere sollevata dai bulldozer israeliani che demoliscono le case, schiacciano auto e sradicano gli ulivi piantati da padri dei padri.

“Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione” è un insieme di episodi, di scene recitate da gente comune, in cui Suad Amiry, gli amici, il marito paziente, la suocera resiliente, il suo cane si alternano sul palcoscenico. Si mescolano nella recita ai militari, ai collaborazionisti, ai vicini di casa che improvvisano un party in giardino nel caos incontrollato di una distribuzione di maschere antigas all’interno di un autobus militare in previsione di un attacco lanciato da Saddam Hussein a Israele durante la Guerra del Golfo. Si ride praticamente per non piangere, ma soprattutto per non consentire ad una guerra che ormai non ha più età di calare il sipario della rassegnazione silenziosa. L’autrice pare voler riscoprire, nel suo modo di narrare, gli antichi hakawati, i cantastorie che giravano nei caffè di quel Medio Oriente in cui due popoli sembrano essersi girati le spalle per sempre.

Ma c’è anche la forza delle donne in questo libro. Anzi direi che è la vera forza vitale che rende l’insostenibile sopportabile, che regala ad un quotidiano fatto di vessazioni e irragionevolezza quella luce che serve per poter guardare al giorno dopo. Perché è così che si va avanti. Amiry ci parla di donne piene di energia, di iniziativa, donne vive (in contrasto forse con quelle delle zone rurali in cui religione e ignoranza le collocano in una specie di medioevo, quello raccontato in “Bruciata viva” di Suad). Ce ne parla ricordando la “Festa della Donna” a Ramallah in cui le palestinesi esprimono tutta la loro rabbia contro l’occupazione e contro certi uomini. D'altro canto l’autrice, negli anni ’90, faceva parte di un’organizzazione pacifista che si chiamava Network e nel 1995 si trovava a Washington per la firma degli accordi di Oslo, parte della delegazione palestinese. A tale proposito fa sorridere, in alcuni passaggi del libro, il suo richiamo alla sussurrata comprensione di Arafat, innanzi ad alcuni momenti di quasi comico cedimento ideologico della causa.

"Palestinesi in viaggio di relax in Egitto” è certamente uno degli episodi più divertenti, ma anche più emblematici di come la patologica presunzione israeliana di categorizzare le persone, in modo particolare se associate all’aggettivo palestinese, sfoci in una sorta di isteria di confine e claustrofobica sindrome dell’assedio. Un’immagine che si rafforza innanzi al “muro”, simbolo della divisione e della prigionia, gabbia in cui rinchiudere e in cui rinchiudersi, freddo e grigio confine in cui un vecchio palestinese, in un punto sulla mappa chiamato Kalkilya, chino sulla terra dei suoi avi, ostinatamente ripianta gli olivi sradicati dalla follia di chi si vanta d’essere il popolo eletto.
… (altro)
 
Segnalato
Sagitta61 | 1 altra recensione | Feb 13, 2024 |
Spesso mi si fa notare quanta drammaticità sia insita nei libri che suggerisco sul tema del Medio Oriente e della Palestina. Prendo ad esempio i pluricitati “Fuga dall’inferno. Una storia palestinese” di Mischa Hiller (Newton, 2010) e “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa (Feltrinelli, 2011). La risposta che corre spontanea è che forse c’è tutto l’elemento della tragedia in ciò che riguarda il rapporto tra israeliani e palestinesi e che la drammatizzazione è perciò necessaria, ma rischierei di dichiarare il falso dopo aver letto un’autrice come Suad Amiry, partendo da un suo celebre libro: “Sharon e mia suocera - diari di guerra da Ramallah, Palestina” (Feltrinelli 2003, poi ripubblicato insieme a “Se questa è vita” del 2005 in “Universale Economica” nel 2007).

Ammetto che, pur nell’intensità emotiva delle situazioni in cui l’autrice si viene a trovare, è comunque riuscita a farmi sorridere e forse anche ad andare oltre, dandomi il Là per qualche bella risata, senza tuttavia sminuire il peso della sofferenza. “Sharon e mia suocera” (Feltrinelli) è un “non libro” concepito durante la rioccupazione israeliana della città di Ramallah, una sorta di sintetico “diario di guerra”. Anzi, come ha più volte dichiarato l’autrice, questo lavoro di scrittura nasce come una terapia pensata per lei stessa, donna palestinese come tante, costretta dal conflitto a vivere una reclusione forzata fra le pareti domestiche, per di più con la propria suocera petulante, ma che poi risulta teneramente simpatica. Una narrazione ironica e divertente che ha trasformato, senza alcuna pianificazione, un architetto in una scrittrice che, nei primi due anni dalla pubblicazione, si è vista tradotta in una ventina di lingue e tutto ciò senza citare Arafat o l’OLP.

Suad Amiry, infatti, è un architetto palestinese, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura all’American University di Beirut e all’Università del Michigan, specializzandosi infine a Edimburgo. Dal 1981 insegna Architettura alla Birzeit University e, da allora, vive a Ramallah. Ha scritto e curato numerosi volumi sui differenti aspetti dell’architettura palestinese, ma soprattutto, a partire dal 2003, vari romanzi in cui, con il suo tratto carico di humor e di una satira graffiante, soprattutto nei confronti del governo israeliano, riesce ad offrire al lettore una straordinaria, quanto lucida analisi politica della situazione in cui si trovano oggi a vivere i palestinesi.

Era il novembre del 1947 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la fatidica risoluzione 181, che sanciva la divisione della Palestina sotto il mandato britannico in due Stati, uno arabo ed uno ebraico. Giaffa, la città che ha dato i natali al padre di Suad Amiry, finì in quella parte di mappa assegnata allo stato arabo, ma l’attacco delle milizie ebraiche descritte anche da Dominique Lapierre e Larry Collins in “Gerusalemme Gerusalemme” (Mondadori, 1972) diede origine a violenze, incendi, saccheggi, interrompendo ogni forma di pacifica convivenza fra arabi ed ebrei, anticipando di fatto la “Nakba” del 1948, la “catastrofe”, l'esodo forzato della popolazione araba palestinese dalle proprie terre. Come la gran parte dei palestinesi nati dopo il 1948, anche Suad Amiry non è nata in Palestina. Per questi profughi figli di chi visse la diaspora mediorientale, la terra dei padri è spesso più un luogo della mente che fisico, immaginato più che vissuto, raccontato e spesso mai calpestato. Ma l’autrice, dopo aver conseguito la laurea ed una cattedra universitaria, recupera le sue origini, ritorna nella terra dei ricordi paterni a cercare la casa di cui i genitori le avevano parlato con un profondo amore ed una lacerante nostalgia. Si stabilisce in Palestina.

In questo libro ella ci fa partecipi delle assurdità del quotidiano in una terra occupata. Anzi rioccupata, perché questo suo diario segna gli eventi a partire dal settembre 2001 quando, per decisione di Sharon, l’esercito israeliano stringe d’assedio Ramallah e i territori che Israele aveva già occupato. Irruzioni nelle case, devastazione, perquisizioni che spaventano e vessano gli abitanti, inutili uccisioni, spesso solo per non aver compreso gli ordini in ebraico dei militari occupanti, porte di casa fatte esplodere, autovetture schiacciate dai tank, coprifuoco infiniti. E in tutto ciò c’è la vita che continua: i bambini che devono andare a scuola, gli operai al lavoro, la corsa per trovare alimentari e gas per cucinare. Ogni minima sospensione del coprifuoco si trasforma quindi in un’occasione per folli e frenetiche incursioni in città, a cercare la suocera o l’amica intrappolate in casa, a procurarsi generi di prima necessità, ad accertarsi della situazione di amici e conoscenti, a rincorrere la scia di dolore negli ospedali e negli obitori per cercare, tra chi si conosce, chi non risponde più all’appello.

In tutto ciò però l’ironia di Amiry stempera il dolore, recupera il piacere del quotidiano anche sotto l’occupazione, i pettegolezzi, le chiacchiere dei vicini, le telefonate con gli amici, i battibecchi con la suocera, la capacità innata di trovare sempre una soluzione, una risposta, un gesto di speranza di un popolo assediato da oltre mezzo secolo. Nell’aspetto, talvolta comico della tragedia, chi scrive cerca e, spesso trova, una strategia per resistere e sopravvivere alle difficoltà di ogni giorno, ma anche per farci riflettere su temi come la giustizia, il dolore, la diversità di valori tra mondi che si toccano ma che non si comprendono, forse accomunati dal desiderio di normalità, che però per qualcuno è sostituito del senso di una vita a metà in cui tutte le persone sono uguali, ma alcune sono più uguali di altre.

Le incredibili difficoltà per muoversi nei territori occupati, costellati da assurdi check point israeliani e da altrettanto irrazionali regole e lasciapassare, quando non dall'umore dei militari che li presidiano, assumono nel racconto di “Sharon e mia suocera” la dimensione di una comica in bianco e nero, se non fosse per i risvolti drammatici che tutto ciò ha nel quotidiano di chi le vive. Altrettanto spassoso è il botta e risposta dell’autrice in arrivo all’aeroporto di Tel Aviv con i funzionari del controllo passaporti, cui mancano solo le risate gregarie in sottofondo.

Chi mi legge ora penserà che quello che sto per scrivere poco ha a che vedere con questo libro, ma ciò che nel 2017 ebbe a pubblicare la rivista “Internazionale” circa il suo festival d’ottobre in cui erano invitati ben cinque palestinesi (tra cui la Amiry), ha molto in comune con lo spirito e la scrittura di questa autrice, ma soprattutto con quello che cerca di comunicarci. Nell’articolo è sintetizzato il “calvario logistico” che gli organizzatori dovettero affrontare per quella reunion di palestinesi dispersi in differenti paesi. Scrive su Internazionale Suad Amiry: “I due della diaspora, ovvero Selma Dabbagh ed Elias Sanbar, vivono rispettivamente a Londra e a Parigi, mentre quelli non della diaspora, ovvero Atef Abu Seyf, Rula Halawani e io, viviamo in differenti parti dei territori occupati: Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania. La distanza tra Ramallah, dove vivo io, e Gerusalemme, dove vive Rula, è di appena 14 chilometri. Eppure, io e Atef (come i cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza) non possiamo andare a Gerusalemme, neppure nella parte araba. E naturalmente né Rula né io possiamo raggiungere Gaza, dove vive Atef Abu Seyf, a causa del blocco imposto alla Striscia dal 2007. Per volare in Italia, non potremo usare lo stesso aeroporto. A parte Rula, che ha un documento d’identità rilasciato a Gerusalemme, dal 2000 né io né Atef, ancora una volta come altri cinque milioni di palestinesi, abbiamo il diritto di usare l’aeroporto di Tel Aviv. Atef dovrà uscire da Gaza attraverso il valico di Rafah e prendere l’aereo al Cairo, mentre io dovrò viaggiare da Ramallah ad Amman e partire dall’aeroporto della capitale giordana. Se poi uno qualsiasi di noi volesse incontrare i suoi colleghi della diaspora a Londra e a Parigi, dovrebbe richiedere un visto britannico o uno francese. E sappiamo tutti cosa significhi ottenere un simile visto per chi ha un passaporto palestinese”.

“Sharon e mia suocera” va oltre il racconto di un’occupazione militare, è il lucido resoconto di un vissuto assurdo che si perpetua nel tempo e con tale metodicità al punto da voler farci credere che vivere nell’ingiustizia sia una cosa cui ci si possa abituare.
… (altro)
½
 
Segnalato
Sagitta61 | 7 altre recensioni | Dec 27, 2023 |
Riuscite a immaginare qualcosa di più feroce e devastante dell'occupazione militare del vostro paese e di un severo coprifuoco imposto per mesi alla vostra città? Sembrerebbe d'obbligo una risposta negativa e invece Suad Amiry, palestinese di Ramallah e architetta, grazie a una mossa letteraria totalmente fuori schema, riesce a spiazzarci con un esilarante diario pubblico-privato che registra le cose... dal basso e in interni. In un pugno di pagine scoppiettanti di humour e di vetriolica lucidità politica e sentimentale, i colpi bassi di Sharon e del suo governo finiscono così per fare tutt'uno con le idiosincrasie di una suocera petulante, con la quale l'autrice si trova a trascorrere in un involontario tête à tête il tempo dell'assedio. Sconveniente e sofisticata quanto basta per increspare le acque della correttezza politica e per evitare il tormentone retorico che vorrebbe vittime e oppressori sempre assegnati a campi rigorosamente separati, con Sharon e mia suocera Suad Amiry dà alla letteratura quello che il regista araboisraeliano Elia Suleiman ha dato al cinema con il recente Intervento divino: un quadro lieve, surreale e ad altissima definizione dei guasti di una vita offesa. (fonte: retro di copertina)… (altro)
 
Segnalato
MemorialeSardoShoah | 7 altre recensioni | Nov 14, 2022 |
Teta a quattordici anni viene mandata a Damasco in sposa a Jiddo, di vent’anni più grande di lei. Il terrore della piccola è enorme, ma Jiddo sa come tranquillizzarla, e la prima notte di nozze passa tranquillamente. Peccato che non è tutto rose e fiori, specialmente quando Teta deve andare al capezzale della madre morente. Infatti, durante la sua assenza Jiddo la tradisce. Teta prende così l’enorme decisione di non lasciare mai più il marito da solo e manterrà questa promessa fino alla fine dei suoi giorni, pur seguendo la crescita di otto figli prima e dei nipoti poi.… (altro)
 
Segnalato
kikka62 | Apr 2, 2020 |

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